Il fiume non ha bandiere
di Geraldina Colotti
Il XXI secolo sarà il secolo delle guerre per l'acqua? In un volumetto a carattere storico-sociologico, Acqua e comunità (introduzione di Teresa Isenburg, Elèuthera, 2003, 15 euro), l'inglese Colin Ward dice la sua rifacendosi al folklore popolare. Racconta che nei pub è ancora molto gettonata una frase di Mark Twain: il wiskey è per bere, l'acqua per azzuffarsi. Una battuta a cui di solito segue il racconto della faida tra la compagnia idrica e il birrificio. All'inizio i birrai erano ottimi clienti dei fornitori d'acqua. Ma poi scoprirono che, scavando in profondità nei loro terreni con adeguate tecniche di perforazione, potevano ottenerne di pura in proprio. La compagnia idrica, però, scavò un pozzo ancora più profondo e prosciugò quello del birrificio. I birrai s'ingegnarono e cercarono più a fondo ancora.
E gli altri contrattaccarono, in una dinamica costosissima e distruttiva, che ebbe termine solo quando i contendenti, nell'interesse comune, si misero d'accordo. Per il sociologo libertario Ward, questa storia esemplifica, in micro, le ben più pericolose dispute in atto per lo sfruttamento dell'acqua, e mostra come le comunità sappiano trovare al loro interno il modo di risolvere i conflitti intorno all'usufrutto di un bene necessario a tutti. Ward riprende le riflessioni dell'architetto svizzero Jean Robert. Dopo aver conosciuto Ivan Illich e John Turner, Robert stufo di «costruire banche», si trasferì in Messico, e per vent'anni si occupò a livello locale di sistemi non idraulici di smaltimento fognario. Cercò il punto di equilibrio tra la necessità di conservare le risorse idriche e quella di garantirne l'accesso ai ceti poveri. Nella sua concezione - recepita dalla Conferenza internazionale sull'acqua e l'ambiente nel '92 - fornì un indirizzo «naturale» al diritto internazionale, spesso impotente o succube dei grandi interessi in gioco nei conflitti idrici. Un'opzione «dal basso», dalle comunità locali, le uniche deputate a decidere sull'utilità di un'opera idraulica. «In tutta la storia - scrive infatti Robert - l'acqua è stata motore di pace e non di guerra». Come disse un poeta, il fiume non ha bandiere, anche se attraversa nazioni diverse, e se si ascoltassero i fiumi non ci sarebbero guerre. Ma in alcune regioni più povere d'acqua - come il Medioriente, l'Africa o alcune zone dell'Asia - la voce dei 261 fiumi che oggi scorrono da un paese all'altro, è spesso coperta dal fragore degli obici o distorta dalle dighe. Per un'articolata ricerca sul tema - Water Wars (Carocci, 2004, 21 euro) - , l'ambientalista americana Diane Raines Ward si è recata nei principali luoghi di tensione dovuti anche al controllo delle risorse idriche. Ha seguito soprattutto il corso del Nilo, il fiume più lungo del mondo che è in realtà molti fiumi, teatro di conflitti aperti o sotterranei, e che finisce in Egitto. Sette fra i dieci paesi africani che utilizzano l'acqua del Nilo, come il Ruanda e il Burundi, sono tra i più poveri del mondo. E, dice Raines Ward appoggiandosi a una ricerca di settore, «la povertà ambientale può contribuire a instaurare un clima di violenza subnazionale generale e continua». La ricerca - in parte datata perché precedente alle ultime vicende di guerra in Afghanistan e Iraq - non indaga le ragioni strutturali della povertà e dell'«insicurezza», ma evidenzia un punto: la questione dell'acqua è soprattutto quella di chi la controlla, dunque «qualsiasi discorso di condivisione è pura fantasia senza una riconciliazione politica».
Confida invece nel diritto internazionale Fréderic Lasserre, originario del Quebec, che svolge ricerche nel campo della geopolitica dell'acqua e dei mutamenti climatici dell'Artico. Il suo volume Acqua, spartizione di una risorsa (Ponte alle Grazie, 2004, 12 euro), esamina le tensioni sociali e geopolitiche prodotte anche dal possesso delle risorse idriche, ma senza indulgere in visioni catastrofiche o unilaterali.
L'acqua, dice, è una notevole fonte di conflitto, ma così come non è stata la sola causa scatenante la «guerra dei Sei giorni, è improprio considerare questa la prima delle guerre dell'acqua che alcuni analisti si attendono di veder scoppiare in diversi punti del globo nel corso del XXI secolo». Ma è proprio vero che l'acqua, l'oro blu, scarseggia e per questo sarà sempre più motivo di guerra? Nel volume di Marq de Villiers - Acqua, storia e destino di una risorsa in pericolo, appena ripubblicato nei Paperback da Sperling (10, 50 euro), l'intervento di Riccardo Petrella tira un filo fra l'analisi e le proposte. Nel riproporre i nodi principali del problema - riconoscimento dell'acqua come bene comune, mutamento di indirizzo nelle politiche agricole e industriali e nei comportamenti individuali - sul tema acqua e guerra, Petrella invita alla cautela: se è pur vero, dice, che i conflitti più caldi abbiano attualmente luogo in Medioriente o in Africa, dove l'acqua scarseggia, l'argomento fondato sulla penuria d'acqua non è che una mezza verità. La soluzione al problema idrico non si trova nell'acqua, ma nei centri decisionali della politica e dell'economia che producono ineguaglianze e perpetuano ingiustizie come in Palestina. L'acqua da sola, insomma, non è la causa primaria dei conflitti, né lo strumento per risolverli. Perché l'acqua sia fonte di pace e benessere fra i popoli, dice Petrella, occorre lottare contro i signori del denaro e della guerra e della tecnocrazia, strumenti del profitto capitalistico internazionale. Attenzione alle trappole, dunque, perché, come titolava un volume-inchiesta di Giuseppe Altamore, giornalista di Famiglia Cristiana, Qualcuno vuol darcela a bere (Fratelli Frilli, 2003, 14 euro).
da Le Monde Diplomatique Luglio 2004
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