giovedì 26 gennaio 2012






Il reportage pubblicato oggi sul Venerdì, più la video-intervista al governatore della Puglia.


BARI. Quella dell’acqua in Puglia è la classica storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Parli con il governatore Nichi Vendola e ti inonda di parole rivoluzionarie: investimenti decuplicati in quattro anni, perdite ridotte e tariffe congelate al grido di «l’acqua privata profuma di guerra, quella pubblica di vita». Poi leggi i giornali dell’ultima settimana e il bollettino è quello di metà Lecce a secco per un giorno per la rottura di una condotta, del sindaco di Taranto che reclama il riallaccio per decine di famiglie abusive da anni o ancora di Pane e Pomodoro, la spiaggia barese popolare come una bruschetta per l’ennesima volta inagibile causa liquami. Il bello (e il brutto) è che hanno ragione entrambi. E per dar conto delle due prospettive la vicenda rischia di assomigliare a un Picasso del periodo cubista. Dove il soggetto del quadro è ovviamente l’Acquedotto Pugliese, ircocervo levantino di una spa con azionista pubblico, che nell’immortale definizione di Montanelli, per lungo tempo «ha dato più da mangiare che da bere». Anche oggi, che non è più vero, resta l’epicentro di record antitetici. Tipo quello del suo amministratore unico che vince (meritatamente) il premio come miglior manager idrico mentre la sua vetusta rete continua a perdere (oggettivamente) più di tutte le altre, dovendo immettere 187 litri per farne arrivare 100, secondo le recenti stime di Confartigianato. Dunque?
Indizi mezzopienisti sono disseminati dappertutto. La ragione per cui, cercando un testimonial del dibattito acqua pubblica versus privata, abbiamo puntato dritti verso il Tavoliere è semplice. Se non «il» più grande d’Europa, secondo l’orgoglio popolare adottato sbrigativamente dai media, l’acquedotto pugliese è di certo tra i più lunghi e complessi. Aggiungete che la regione non ha fonti proprie – né fiumi per la depurazione – ed è costretta a comprare l’acqua da Basilicata e Irpinia, spingendola con enorme dispendio elettrico per ventimila chilometri di tubi per farla arrivare a quattro milioni di persone. Infine considerate la dimensione politica. Nel milione e 400 mila firme raccolte per il referendum contro la privatizzazione della gestione delle acque, il cosiddetto decreto Ronchi, oltre 100 mila sono confluite da qui. Un entusiasmo militante figlio di una penuria storica e di un governatore carismatico che ne ha fatto un punto chiave del suo programma.
Sono giorni concitatissimi, Vendola ha confessato le sue ambizioni nazionali, auto-candidandosi alla guida del centrosinistra. Il Consiglio regionale è sotto una tempesta di telefonate romane ma il presidente non rinuncia a spiegare la sua campagna delle acque. Distingue tra un prima e un dopo, fissando nel 2005 il giro di boa. Da «un’azienda spolpata viva, tipico carrozzone del Sud, avviata a una malinconica deriva» che, con qualche decennio di ritardo, familiarizza con i concetti di efficacia e efficienza. Esegue un’arringa perfetta, dove non manca né «il pane» né «le rose». «Abbiamo internalizzato la depurazione, con un centinaio di macchine avanzatissime e risparmiando cinque milioni di euro all’anno. Avviato la ricerca perdite su oltre un terzo della rete. E stabilito un principio che pareva esotico: a chi non paga tagliamo la fornitura».
Già, le perdite. Uno studio Fondazione Civicum-Mediobanca di un paio d’anni fa le quantificava in metà (la media nazionale è del 25 per cento). Distinguendo in «fisiche» (37,7 per cento), falle, infiltrazioni, tubi rotti e «amministrative» (12,6 per cento), che comprendono quelli che si attaccano di rapina alla rete e i contatori manomessi. L’uomo chiamato per far uscire dalle secche l’Aqp, dopo il non rimpianto interregno dell’ideologo del Manifesto mondiale delle acque Riccardo Petrella, è un ingegnere idrico di nome Ivo Monteforte. Genovese serio e no frills, non prova neppure ad arrampicarsi sugli specchi: «Senta, a lungo siamo stati un appaltificio e un assumificio. È mancata la manutenzione sulle condutture, non sono stati cambiati i contatori. Era un ente, e l’ente fa fare mentre l’azienda fa. Noi abbiamo invertito il trend, sia per la produttività dei lavoratori che per gli investimenti. Però abbiamo ancora molta strada davanti». L’opzione teorica pubblico-privato non lo appassiona: «La politica prende le decisioni. Io sono quello che le fa rendere al massimo». Una dicotomia di scarso aiuto anche per desumerne indicazioni sul peso della bolletta: «Ce ne sono di salatissime sia pubbliche, come in Germania e Danimarca, che private economiche, come in Gran Bretagna. La qualità si paga sempre». La loro, a dispetto della girandola di cifre che circolano, è al quarantunesimo posto (su 88) della classifica del Blue Book italiano («e siamo gli unici a pagare, tra acqua grezza e energia per trasportarla, quasi 100 milioni di euro!»). Ma l’orgoglio maggiore, che fa funzionario sabaudo post-unitario di fronte ai misteri del Meridione, è aver ripristinato un po’ di legalità: «C’erano comuni con metà abitanti non allacciati alla rete eppure con i rubinetti zampillanti. Ieri, se osavamo staccare l’acqua interveniva subito il politico di turno. Oggi, per toglierla al comune di Foggia, i miei dirigenti non mi consultano neppure: applicano un protocollo uguale per tutti». La democrazia è automatica.
Ovviamente c’è chi non si beve la favola bella dell’azienda risanata. La fazione mezzovuotista è guidata da Rocco Palese, capogruppo del Pdl in giunta. «Sono entusiasti, ma di che cosa? Se il bilancio va meglio è perché stanno vendendo il patrimonio. Il personale dell’azienda è in un contenzioso perenne (si è registrato il primo sciopero della storia, ma Monteforte lo rivendica come merito in un’impresa che si concepiva come una mangiatoia). E hanno perso 163 milioni di euro in fondi comunitari per non aver realizzato dissalatori autorizzati dalla giunta precedente». Lo fa imbestialire il metodo Vendola, che sarebbe «specializzato in leggi regionali opposte a quelle dello statoproprio per far fare la figura di nemico della Puglia a chi, come Fitto, le impugna prima della bocciatura di incostituzionalità». Un rischio, nel caso specifico, segnalato anche da Carmine Dipietrangelo, esperto di questioni idriche per il Pd regionale: «I proprietari delle reti sono i comuni. Se si andasse, come chiede la regione, verso la società pubblica, dovrebbero farne parte anche loro. Il governatore non può prendersi poteri che non ha. E in ogni caso c’è più rischio che un ente diventi un carrozzone che succeda a una spa».
L’argomento pesante per la ripubblicizzazione lo cala Fabiano Amati, assessore alle opere pubbliche: «Mettiamo che manchi l’acqua o un costosissimo depuratore in una località dove vive una decina di famiglie: che interesse avrà un gestore privato a portarceli? Nessuno. Per questo dev’essere pubblico». Quando lo riferisco a Franco Tatò, attuale presidente della Treccani ma che da amministratore dell’Enel aveva un piano per rifondare radicalmente l’Aqp, trasecola: «Pura demagogia! Nessuno discute che l’acqua sia e debba restare bene pubblico ma altra cosa è la sua gestione. È il pubblico che stila il contratto di servizio e, se vuole che sia servita anche una singola famiglia, il gestore privato deve obbedire. Ovviamente con costi che ricadranno sulla collettività. Ma davvero esiste ancora chi dubiti, tra pubblico e privato, quale sia più inefficiente e incline alla corruzione?».
Un’obiezione che il governatore salta in souplesse, come eco fastidiosa di un evo lontano. La annega alzando il livello del discorso su scala mondo, globalizzandolo: «I propugnatori del privato hanno il grave torto di non guardarsi attorno. Alla guerra dell’acqua in Bolivia. Alla fallita privatizzazione di Atlanta. Alla marcia indietro di Parigi. La mercificazione dell’acqua ha dentro di sé un paradigma autoritario. Sul serio pensiamo di blindare le nuvole?». Resterebbe in piedi il dettaglio prosaico della tariffa stellare della pubblicissima Berlino.
La mitopoiesi del politico-filosofo però non si impantana nelle eccezioni alle regole. «C’è, nel tentativo di disaccoppiare sostanza dell’acqua e sua trasmissione, una furbizia che punta a inquinare la religiosità naturale di questo tema. In ultimo, una bestemmia contro Dio». E fu così che, di metafora in metafora, nel carpiato dalla scatologia all’escatologia, il bicchiere mezzo pieno divenne un calice.

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mercoledì, 11 agosto 2010; 18:28



Se il mondo perde il senso del bene comune

Stefano Rodotà

Pochi giorni fa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L’anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet.
Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all’accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l’acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).

Nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell’acqua; in Italia la questione dell’acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.

Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l’inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell’argomento, usato per l’acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali.
I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà.
Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno.
In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità".

Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l’acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare.
La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica.
Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di "un’erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni.
Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze.
Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo.
Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.

Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi.
Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato.
Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev’essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell’articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata.
Qui è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.

La Repubblica, 10 agosto 2010

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martedì, 10 agosto 2010; 11:47




di Andrea Palladino

Consumiamo meno acqua, ci dicono le statistiche. Forse è la crisi, forse sta accadendo che la cultura del risparmio delle risorse ambientali sta iniziando a prendere piede. La notizia potrebbe, quindi, essere più che positiva.
Ed è probabile che essere più accorti con l'acqua, controllando i rubinetti, utilizzando le accortezze di buon senso per non sprecare le risorse idriche, sia una conseguenza più o meno indiretta del lungo e profondo lavoro del movimento per l'acqua pubblica. Nei territori dove sono attivi i comitati gli incontri di sensibilizzazione hanno creato una coscienza diffusa e solida: ripubblicizzare vuol dire soprattutto investire nel futuro dell'ambiente.
In realtà il risparmio idrico in Italia - almeno in alcune regioni - ha una storia quasi decennale. È il caso della Toscana, dove fin dai primi anni 2000 diverse campagne d'informazione hanno convinto i cittadini ad usare con più criterio il rubinetto. Fatto che non è piaciuto a Publiacqua, il gestore privato delle risorse idriche fiorentine. Meno acqua vendo - hanno spiegato i manager - meno fatturo e meno guadagno.
Nel 2001 veniva approvato il Piano d'Ambito, ovvero il piano industriale del bacino fiorentino, affidato alla società per azioni partecipata da Acea. Si prevedeva che nel 2005 il volume dell'acqua venduta ai fiorentini dovesse raggiungere i 92,5 milioni di metri cubi, contro gli 89,8 del 2001. Un aumento che andava in sostanza ad incrementare il profitto di Publiacqua. Alla prima revisione del piano i tecnici si accorgono di aver esagerato, perché tutta quell'acqua a Firenze non serviva. Non solo. Nel 2006 il gestore privato fa sapere che i conti non tornano, perché qualcuno si era messo in testa di risparmiare. «A fine anno 2006 Publiacqua comunica all'Autorità - spiega un documento scritto dall'Ato 3 del Medio Valdarno - un nuovo aggiornamento dei dati sulla fatturazione, che evidenzia per la prima volta una forte contrazione dei volumi per l'anno 2005. La società comunica, inoltre, che la diminuzione dei consumi per l'anno 2005, circa 2 milioni di mc, deriva essenzialmente da una contrazione dei consumi da parte delle utenze domestiche». Ovvero le famiglie usavano, per la prima volta, meno acqua. A questo punto accade l'incredibile: visto che si vende meno acqua e visto che va rispettata la formula magica del "ricavo garantito" per il gestore, i prezzi vanno aumentati.
Il costo dell'acqua si basa su una formula tanto semplice quanto micidiale. Prendendo la variabile indipendente del ricavo garantito per il gestore, questo numero viene diviso per la quantità di metri cubi d'acqua erogati, ottenendo la tariffa media. È evidente che, diminuendo la quantità della merce venduta, il costo unitario automaticamente sale. Il sistema si chiama "metodo normalizzato" ed ha una doppia filiazione: il principio venne sancito nel 1994 dalla legge Galli e reso esecutivo con un decreto firmato Antonio Di Pietro del 1996.
È dunque evidente come la gestione industriale che i tre quesiti referendari dei movimenti per l'acqua pubblica vorrebbe abolire non può garantire il risparmio dell'acqua. Tutto il peso della responsabilità ambientale viene lasciata sulle spalle dei cittadini, che vengono penalizzati con aumenti delle bollette quando attuano una gestione virtuosa dell'acqua. E non saranno di certo le società per azioni a salvare il pianeta.

Fonte: Il Manifesto

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domenica, 08 agosto 2010; 06:48
Acqua a Iride senza una gara 
la bacchettata dell´antitrust
E chi l´ha detto che la fornitura di acqua a Genova e dintorni debba 
essere affidata, fino al 2032, a Iride, il colosso dei servizi nato dal 
matrimonio fra l´Amga di Genova e l´Aem di Torino e da poco unitasi al
polo emiliano di Enia in Iren? L´Antitrust non ci sta e contesta il 
provvedimento. In una nota l´autorità garante della concorrenza e del 
mercato (Agcm) interviene sul nuovo affidamento diretto del "servizio 
idrico integrato" nell´Ato (ambito territoriale e quindi esteso a una 
porzione provinciale molto ampia) di Genova a Iride Acqua e Gas fino al 31 
dicembre 2032. Secondo l´autorità - che ha scritto in merito al presidente 
della Regione Burlando, alla conferenza dei sindaci dell´Ato della 
Provincia di Genova e a Iride - il nuovo affidamento diretto «introduce 
ulteriori ed ingiustificati elementi di distorsione della concorrenza nel 
mercato di riferimento». Per l´Antitrust, l´affidamento diretto è una 
scelta «in chiaro contrasto con la legislazione nazionale in materia di 
modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali e con i
principi concorrenziali» e viene quindi chiesto di «riconsiderare la 
scelta fatta, alla luce della normativa sui servizi pubblici locali e dei 
principi a tutela della concorrenza». L´assessore della Provincia 
responsabile delle politiche dell´acqua Paolo Perfigli, interpellato sulla 
questione, afferma che il tema «è molto controverso». Dinanzi alla Corte 
Costituzionale, sottolinea, sono in atto contenziosi tra alcune regioni e 
il governo in merito alle competenze sull´affidamento dei servizi idrici. 
Fonte: Repubblica di Genova

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domenica, 08 agosto 2010; 06:08


La promessa di Formigoni

"L'acqua resterà pubblica"

E il governatore assicura: “Con la riforma le tariffe non aumenteranno”.
Il voto ad autunno

di STEFANO ROSSI

"Le tariffe dell'acqua non aumenteranno, perché a stabilirle saranno le Province. Nessuno vuole privatizzare l'acqua, la Regione sta riorganizzando la gestione dei sistemi idrici in vista dell'abolizione degli attuali organismi di gestione, gli Ato, imposta dalla legge nazionale per il 2011". Così il governatore Roberto Formigoni e l'assessore Marcello Raimondi rispondono ai Comitati per l'acqua pubblica e al centrosinistra che martedì hanno manifestato contro la legge regionale in preparazione. Legge che sarà discussa a settembre, ieri in giunta è passata solo una informativa: "Come avevamo sempre detto". 


Anche il presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, difende il decreto Ronchi: "La proprietà delle reti idriche rimarrà in mani pubbliche. Il decreto Ronchi prevede che la fornitura dell'acqua sia messa in gara al 100 o al 40%. Le Province lombarde privilegiano la seconda opzione e auspicano la costituzione di società al 60% pubbliche e al 40% private". 


A tutti risponde Roberto Fumagalli, dei Comitati per l'acqua pubblica: "È vero solo in teoria che le tariffe saranno stabilite dalle Province. A fare i prezzi saranno i gestori privati del servizio, come in Toscana dove hanno impugnato i piani tariffari in sede giudiziaria perché troppo contenuti. Lo spezzettamento fra proprietà di reti, investimenti ed erogazione era già in una legge che Formigoni tentò di far passare nel 2006 e che è stata bocciata tre volte dalla Corte Costituzionale". 

Il centrodestra obietta che il governo si limita a recepire la normativa europea. "La Ue non obbliga a privatizzare  -  replica ancora Fumagalli  -  chiede agli Stati membri di decidere per ogni servizio quale va gestito a livello pubblico perché di interesse generale e quale è privatizzabile perché di rilevanza economica. Olanda e Belgio hanno dichiarato l'acqua bene di interesse generale, l'Italia è l'unico Stato membro, per ora, per cui l'acqua è una merce. Pertanto la privatizzazione è una scelta del governo, non una imposizione dell'Europa". 


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sabato, 07 agosto 2010; 06:17


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