lunedì 25 marzo 2013



Sprechi e inciuci, così in Calabria l’acqua è sporca


Francesca Chirico

Piante in putrefazione, escrementi di buoi, quell'acqua è inquinata. «Ci stanno avvelenando», dicono
SERRA SAN BRUNO - Bastava conoscere un po’ di botanica. Il trifoglio acquatico (Menyanthes trifoliata) è una pianta strana. Un relitto dell’epoca glaciale che apre i suoi fiori bianchi solo in zone acquitrinose, paludi e stagni. E nelle conca della Lacìna, in mezzo ai faggi e agli abeti delle Serre, una lingua d’Appennino tra la Sila e l’Aspromonte, il trifoglio si era sempre sentito a casa. Bastava conoscere un po’ di storia. Quella delle miniere di ferro di Pazzano che, sullo stesso massiccio montuoso, alimentarono in età borbonica una fiorente industria. E, infine, bastava conoscere un po’ il territorio, magari facendoselo raccontare da boscaioli e cercatori di funghi che quell’angolo di montagna del Vibonese, inumidito dal torrente Alaco, l’hanno sempre considerato buono solo per le leggende, come la storia della baronessa che uccideva i suoi amanti gettandoli nelle paludi attorno, o per pascolare i bovini, ma facendo attenzione ai pantani.

Messi insieme i pezzi, ne sarebbe uscita la nitida fotografia del bacino del torrente Alaco, nel territorio del comune di Brognaturo: paludi, un sottosuolo ricco di ferro e altri minerali pesanti, e oltre 300 specie di piante e fiori, il 26% rare (nel 1996 è arrivata pure la dichiarazione di Sito di interesse comunitario). Un posto da osservare e studiare, magari andandoci in gita con la scuola. E invece, ignorando le indicazioni del trifoglio acquatico, delle miniere di Pazzano e delle leggende del territorio, agli inizi degli anni Ottanta la Cassa del Mezzogiorno decide, con l’avallo degli enti locali, che la conca della Lacina è il posto giusto per un lago artificiale che disseti il comprensorio della Calabria centrale: 400mila abitanti e 80 comuni tra Vibonese, Piana di Gioia Tauro e fascia jonica catanzarese.

È il primo errore di una storia tutta italiana di sprechi, lungaggini e abbracci torbidi tra politica e grandi imprese, momentaneamente finita con i sigilli all’invaso artificiale e indagini per avvelenamento colposo. Nessun dubbio da parte della Procura di Vibo Valentia sul nome da dare all’inchiesta: “Acqua sporca”. Quando cominciano le operazioni per allagare la conca è il 2004 e attorno all’Alaco ci si affaccenda, a singhiozzo, da 30 anni. Consegnati nell’aprile 1985, i lavori dovevano concludersi due anni dopo e con una spesa complessiva di 15 miliardi. Ma i numeri, in questa vicenda, non tornano mai. Sei perizie di variante, nove sospensioni, il passaggio di mano da Casmez a Regione Calabria.

Nel 2000 il procuratore della Corte dei Conti, Nicola Leone, fa esplodere il bubbone: per un lago che non c’è sono stati già spesi oltre 100 miliardi di soldi pubblici. Dieci volte la previsione iniziale. Attorno al lago fantasma, sperando o millantando un futuro boom turistico, c’hanno pure costruito un albergo e una piscina olimpionica, naturalmente mai entrati in funzione. Indaga anche la Guardia di Finanza che accerta irregolarità e un danno erariale di oltre 68 milioni di euro.

Entrando come socio privato nella Sorical - società a capitale pubblico-privato nata nel 2003 per gestire l’approvvigionamento e la fornitura dell’acqua in Calabria - i francesi della multinazionale Veolia non se lo immaginano il pantano dell’Alaco. Con il 46,5% delle azioni e il diritto di esprimere l’amministratore delegato, nei fatti sono loro a far scorrere l’acqua nei rubinetti dei calabresi. Ovviamente dietro il pagamento della fornitura da parte dei Comuni. Più acqua, più soldi. Forse è anche per questo che nella piana della Lacina i francesi accelerano. Nel 2003 Sorical realizza gli ultimi lavori sugli argini e l’anno dopo la conca va sott’acqua. Diventa lago. Dal 2006, infine, dopo un passaggio negli impianti di potabilizzazione, l’acqua dell’invaso comincia a scorrere dai rubinetti di quasi mezzo milione di calabresi. E nella trasparenza dei bicchieri a restituire una verità torbida, giallastra e maleodorante.

Che il terreno dove fioriva il trifoglio acquatico potesse creare qualche intoppo lo aveva ipotizzato il ministero dell’Ambiente fin dal 1998: «È possibile, tenuto conto della modesta profondità dell’invaso previsto e dei presumibili carichi di nutrienti sul suolo, legati alle precedenti attività di pastorizia, che si sviluppino nei primi anni di vita del nuovo specchio idrico processi stagionali di eutrofizzazione che, qualora ponesseo problemi ai fini degli usi idropotabili, dovranno essere risolti con adeguate tecnologie di potabilizzazione». Il problema, però, non sono solo i buoi. «L’acqua dell’invaso presentava una grossa problematica a causa del disfacimento chimico delle piante presenti sul suolo - rivelerà Maurizio Remo Reale, dipendente della ditta che si occupava dell’impianto prima dell’arrivo della Veolia - . Il disboscamento eseguito prima dell’invaso non era stato portato a termine o l’invaso era stato eseguito molto tempo dopo aver pulito, con la conseguente rigenerazione delle piante. L’acqua appariva di colore giallastro e male odorante con una presunta formazione di ammoniaca al suo interno».

Scenario confermato dal responsabile del laboratorio chimico dell’Arpacal, Francesco Maria Russo, ricordando un sopralluogo del 2004: «Nell’acqua c’era la presenza di specie arbustive (ginestre) sommerse, tanto da far supporre che la pulizia del suolo, prima dell’allagamento della superficie prevista per il bacino, era stata fatta in maniera incompleta, probabilmente limitandosi solo agli alti fusti».

Piante in putrefazione, escrementi di buoi, fondo limaccioso e ricco di ferro. Ma l’acqua del lago, denunciano dal 2010 gli attivisti dell’associazione “Il Brigante” di Serra San Bruno, che per primi e tra non pochi problemi hanno sollevato la questione, potrebbe occultare dell’altro. Prima che l’Alaco ricoprisse tutto, infatti, la conca della Lacina era usata anche come discarica, e il timore diffuso da queste parti è che si sia approfittato dell’occasione per nascondere veleni sotto il “tappeto”: ad alimentare sospetti è soprattutto la presenza della ditta “Coccimiglio” di Aiello Calabro, impegnata nei lavori di riempimento del muro della diga e già finita nelle cronache giudiziarie proprio per una questione di acqua e veleni.

Per la procura di Paola, infatti, l’imprenditore Cesare Coccimiglio, rinviato a giudizio per disastro ambientale e avvelenamento delle acque, avrebbe interrato sostanze tossiche nell’alveo del torrente Oliva di Amantea. Quando lavoravano alla diga, giurano ora molti testimoni, i suoi camion trasportavano il materiale di riempimento direttamente da Amantea. Una scelta strana e antieconomica considerata la cava di quarzo a soli 10 km dal bacino. E i dubbi diventano angoscia.

«Ci stanno avvelenando», hanno urlato per due anni gli attivisti de Il Brigante, organizzando sit-in e manifestazioni, sollecitando un’operazione verità e rimbalzando, puntualmente, contro le rassicurazioni di Sorical e lo scaricabarile tra la società e i Comuni responsabili della rete idrica. Fino al maggio scorso e ai sigilli per carenze igienico-strutturali che la Procura di Vibo Valentia, dando seguito alle denunce dei cittadini, ha deciso di imporre all’invaso, al suo impianto di potabilizzazione e a 57 tra serbatoi, sorgenti e pozzi.

«È emerso un quadro estremamente grave, con pregiudizio per la salute pubblica», ha ammesso, senza nascondere un certo sbigottimento, il procuratore Mario Spagnuolo. «Abbiamo registrato anche una notevole confusione sulle competenze che spettano ai singoli enti circa la depurazione, i controlli e la distribuzione delle acque». Tra i ventisei indagati, a vario titolo, per avvelenamento colposo di acque, inadempienza del contratto di pubblica fornitura, interruzione di pubblico servizio, omissione in atti d'ufficio e falso sono, in effetti, rappresentati tutti gli enti preposti a vigilare sull’invaso e sulla qualità dell’acqua: i vertici della Sorical, ma anche i dirigenti dell’Arpacal (agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) e di alcune Asp, sindaci e dirigenti regionali. Nei fatti, sostengono i magistrati, il problema dell’acqua sporca ha origine proprio nell’invaso dell’Alaco e i controlli, pochi e confusi, non sono stati capaci di evitarlo.

E ora? Nonostante i sigilli e la nomina di un custode giudiziario, poco è cambiato. Sergio Gambino (“Il brigante”) parla chiaro come amava fare il padre, lo scrittore e giornalista calabrese Sharo Gambino, tra i primi in Italia a scrivere di ’ndrangheta. «Nei nostri rubinetti continua a scorrere l’acqua dell’Alaco e noi continuiamo ad avere paura perfino di farci la doccia. Se non si studia al più presto un’alternativa al sistema Alaco l’unica soluzione potrebbe essere quella di lasciare un territorio che amiamo. Perché l’acqua è vita, tutto ruota attorno all’acqua e l’acqua dell’Alaco è acqua morta».




http://www.linkiesta.it/conca-lacina-acqua-sporca





ALACO, IL LAGO DEI VELENI



Acqua inquinata per 400 mila calabresi 


"Un sistema idrico da terzo mondo"

Dall'invaso dell'Alaco arriva agli abitanti di 88 comuni, un liquido sporco, fetido, carico di malattie. Sigillati 57 impianti, sotto sequestro praticamente l'intera filiera idrica del vibonese. Ventisei indagati tra amministratori e tecnici. Ma per la regione Calabria, l'acqua è potabile

di GIUSEPPE BALDESSARRO




VIBO VALENTIA - Ci sono giorni che è marrone chiara, altri di uno strano rosso ruggine. Non la beve più nessuno da mesi, chi può non la usa neppure per lavarsi, ma dai rubinetti non esce altro. E' acqua sporca, marcia, fetida. Corre dall'invaso della diga dell'Alaco in provincia di Vibo Valentia e arriva nei serbatoi di 88 comuni della Calabria centrale. E' l'unica dotazione idrica per 400 mila persone che ci devono fare i conti ogni ogni giorno. Acqua avvelenata e malanni, impianti idrici da terzo mondo e infezioni, depurazione taroccata e l'ombra di danni alla salute.

Lo scorso 17 maggio, la Procura di Vibo Valentia, dopo montagne di denunce si è mossa in due direzioni. L'ufficio diretto dal procuratore Mario Spagnuolo ha fatto mettere i sigilli a ben 57 apparati idrici. In pratica è finita sotto sequestro tutta la filiera idrica del territorio vibonese e di parte di quella catanzarese. Dall'Alaco alle reti che raggiungono i comuni. Secondo l'inchiesta del sostituto Michele Sirgiovanni esistono responsabilità precise di chi doveva controllare e non l'ha fatto, e di tutti quelli che sapendo della situazione avrebbero omesso di lanciare l'allarme per tempo.

Per questo gli investigatori del Nas e del Reparto operativo dell'Arma, nel tempo hanno anche sequestrato interi faldoni di carte in diversi enti. I carabinieri si sono presentati alla Sorical (la società mista in cui la Regione è socio di maggioranza le che gestisce l'acqua in Calabria), nelle Asp di Vibo Valentia e Catanzaro e all'Arpacal (l'agenzia per l'ambiente della Calabria) e ovunque hanno preso documenti e notificato avvisi di garanzia. Ventisei indagati in tutto, tra cui spiccano i nomi dell'attuale sindaco di Catanzaro Sergio Abramo, finito nell'inchiesta in qualità di ex presidente della Sorical, così come il presidente pro tempore del Cda, l'amministratore delegato e il direttore generale tecnico dell'azienda che aveva la gestione dell'invaso.

Indagato anche il direttore Arpacal del dipartimento di Vibo, i dirigenti dell'Asp e diversi sindaci. Il pm Michele Sirgiovanni, aveva a suo tempo avviato accertamenti a seguito di segnalazioni arrivate da diverse parti del terriotrio. Dopo i primi accertamenti Sirgiovanni è arrivato a scrivere delle "notevoli carenze igienico sanitarie e strutturali" che "non potevano non essere notate". Per il magistrato "se i controlli fossero stati eseguiti in modo sistematico nel tempo, non si sarebbe giunti alla disastrosa situazione accertata dalla stessa Azienda sanitaria".

Nella relazione del capitano dei carabinieri Giovanni Trifilò vennero messi nero su bianco particolari a tratti sconcertanti: "presenza di ruggine, escrementi ed animali". Uno status figlio di una sostanziale "inadeguatezza dell'intero sistema di potabilizzazione dell'invaso dell'Alaco alle linee di adduzione e distruzione ai serbatoi di accumulo, alcuni dei quali gestiti dalla Sorical, altri direttamente dai Comuni interessati".

Un quadro complessivo confermato dagli ultimi sopralluoghi eseguiti pochi giorni prima dell'emissione degli avvisi di garanzia sia nell'area vicina al bacino dell'Alaco che in alcuni serbatoi a valle dell'impianto stesso quali ad esempio il sedimentatore di Brognaturo, il serbatoio-ripartitore di Vallelonga, il campo pozzi di Gerocarne, sul cui retro passa la condotta dell'Alaco e, infine, il serbatoio sopraelevato di S. Angelo di Gerocarne.

Le associazioni ambientaliste e i movimenti dei cittadini, che sabato mattina sono scese nuovamente in piazza per chiedere un intervento radicale fotografano una situazione inquientante. Scrivono infatti: "La diga sull'Alaco ha rappresentato negli anni un caso esemplare di sprechi ed inefficienze: lavori infiniti, finanziamenti bloccati, interrogazioni parlamentari, carte sparite, costi lievitati a dismisura. Da quando poi la Sorical ha allungato i suoi tentacoli, a circa 400.000 persone in 88 comuni di tutta la Calabria è stato negato il diritto all'acqua, perché dai loro rubinetti scorre un liquido maleodorante ed infetto, pompato da un lago malato, ex discarica a cielo aperto mai realmente bonificata".

Per questo chiedono la "chiusura definitiva della gestione Sorical, con la presentazione e la approvazione della nuova legge regionale di iniziativa popolare proposta dal coordinamento Acqua pubblica Bruno Arcuri e dismissione urgente del bacino artificiale dell'Alaco".

A febbraio scorso la Regione Calabria ha fatto sapere che l'acqua dell'Alaco è sicura e potabile. L'allarme sarebbe insomma ingiustificato viste le "analisi svolte" dalle strutture regionali e dagli specialisti delle Asp. Nulla da temere insomma, anche se la gente continua a non fidarsi. E la ragione è semplice, dai rubinetti di diverse zone servite dalla diga l'acqua continua a scorrere sporca e maleodorante. L'acqua continua ad essere marcia.

24 marzo 2013




http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/03/24/news/acqua_inquinata_per_400mila_calabresi_un_sistema_idrico_da_terzo_mondo-55271871/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep-it%2F2013%2F03%2F24%2Fnews%2Falaco_il_lago_dei_veleni-55271944%2F





martedì 19 marzo 2013

Colpo grosso all'Acea per ribaltare la maggioranza


 

Grandi manovre per il rinnovo dei vertici. Il ruolo cruciale di Gallo per dare più potere ai soci privati. Boom dei debiti, crolla il titolo in borsa. Negli ultimi due anni l'azione ha perso il 45 per cento

di PAOLO BOCCACCI
Un colpo grosso. Un assalto alla diligenza, a poche settimane dalla scadenza del mandato e dalle nuove elezioni comunali. Il sindaco Alemanno punta a rinnovare il consiglio d'amministrazione dell'Acea, l'azienda di proprietà del Campidoglio quotata in Borsa. Ma c'è di più. Avrebbe intenzione di nominare tra i nuovi cinque consiglieri di amministrazione la cui elezione spetta al Comune Paolo Gallo, l'attuale potente direttore generale che fu fortemente voluto su quella poltrona dal più forte azionista privato Francesco Gaetano Caltagirone.E questa mossa, in sostanza, darebbe nel consiglio una maggioranza reale ai privati con cinque consiglieri contro quattro. Sarebbe come cedere la guida a loro senza neppure vendere le quote. Un gran regalo di Alemanno ai due partner privati proprio alla vigilia delle elezioni per il Comune.
Veniamo all'organigramma attuale del potere in Acea. Il presidente è Giancarlo Cremonesi, fortemente voluto da Alemanno, come pure l'ad Marco Staderini. Il Consiglio invece è composto da 5 consiglieri nominati dal Campidoglio, tra cui il dalemiano Peruzzi, e 4 dagli azionisti privati, due che fanno capo a Caltagirone e due a Gaz de France, la società francese che possiede l'altra partecipazione. L'inserimento di Gallo tra i consiglieri di nuova nomina del Campidoglio sarebbe appoggiato anche dai francesi, che in cambio otterrebbero di  indicare il direttore finanziario. L'operazione è già pronta, dovrebbe essere perfezionata domani e ufficializzata giovedì con la presentazione delle liste per il rinnovo dei vertici Acea.Ma quali sono i risultati ottenuti in questi anni dal management di Acea? L'indice è da tempo sul rosso fisso. Nel febbraio del 2009, data che precede la nomina dell'attuale consiglio di amministrazione, il prezzo di Borsa del titolo era superiore a 10 euro per azione, quello attuale è pari a circa il 4,4, con una riduzione del 56% rispetto al calo dell'indice di borsa Ftse registrato nello stesso periodo, al 28%. I risultati economici della società mostrano poi un drastico calo dell'utile netto, passato dai 186,3 milioni di euro del 2008, (nel 2007 era di 164 milioni di euro) ai 77,4 milioni di euro del 2012, marcando un meno 58%.
E inoltre anche l'indebitamento finanziario netto è cresciuto del 53%, dai 1.633 milioni del 2008 ai 2.496 del 31.12.2012. Ancora: dalla nomina dell'attuale direttore generale, avvenuta il primo febbraio del 2011, ad oggi, il prezzo di Borsa ha subito una riduzione del 45% rispetto all'indice generale che ha perso il 25%, l'utile netto è sceso del 16% e l'indebitamento finanziario netto è cresciuto del 13%. Infine l'ultima stoccata è arrivata dall'agenzia Fitch, che ha ridotto drasticamente il rating della società, portandolo da A a BBB+ con una tendenza negativa.

http://roma.repubblica.it/cronaca/2013/03/19/news/grandi_manovre_dentro_l_acea_boom_dei_debiti_crolla_il_titolo_in_borsa-54859937/



lunedì 18 marzo 2013


Non inquinare l'acqua costa meno che depurarla?

Di acqua non inquinata ce n'è sempre meno e il business futuro sarà sempre di più legato alla depurazione, con costi destinati a crescere sempre più. - Piero Riccardi, Ernesto Pagano


In tutta Italia i movimenti per l’acqua manifestano contro le recenti decisioni sulla tariffa idrica prese dall’Autorità per l’energia e il gas, incaricata dal governo Monti di individuare i criteri che stabiliscono la tariffa del servizio idrico integrato: in pratica quanto dovremo pagare l’acqua in bolletta.
Viene contestato che il “costo della risorsa finanziaria” introdotto ora in bolletta altro non è che un mascheramento della vecchia “remunerazione del capitale investito”, abolita dal referendum del giugno 2011.
In effetti, il vero nodo su cui si gioca la partita della tariffa idrica è il full cost recoveryLetteralmente “recupero integrale dei costi”, principio sancito dalla direttiva europea 2000/60 secondo la quale: «Gli Stati membri tengono conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi ambientali e relativi alle risorse [...] secondo il principio chi inquina paga».
In pratica, nella bolletta dell’acqua vanno inseriti oltre a tutti i costi gestionali e finanziari, anche quelli che riguardano la qualità dell’acqua. Ma siccome di acqua non inquinata ce n’è sempre meno il business futuro sarà sempre di più legato alla depurazione, con costi destinati a crescere sempre più.
In Italia ci sono 57 Sin (Siti di interesse nazionale), sono pezzi d’Italia particolarmente inquinati, tanto vasti che superano i confini e le capacità di bonifica di un singolo Comune. Sono valli intere, bacini composti da più fiumi, laghi e mari: porto Marghera, Bagnoli, Taranto, il bacino del Pescara, della valle del Sacco, il Sarno, per citarne qualcuno. In Campania coprono 345.000 ettari, in Sardegna sono 445.000.
Complessivamente fanno circa 2000 kmq di fiumi, laghi e mari e più di 5000 kmq di terre. Ad inquinarli sono diossine, idrocarburi policiclici aromatici, metalli pesanti, solventi organoclorurati.
Questi 57 sono i siti tristemente noti per l’eccezionalità dell’inquinamento, ma ad inquinare terre e di conseguenza acque ci sono centinaia, migliaia di molecole, piccole e invisibili che continuamente tutti quanti noi, con le nostre attività quotidiane, contribuiamo a far finire nelle acque.
Sono i filtri Uv delle nostre creme solari, i detergenti, i farmaci per il mal di testa e gli antibiotici. A volte sono molecole dai nomi difficili come polibromodifenileteri – PBDE - che ci circondano quotidianamente infilate nei nostri cellulari, nei fili elettrici, nei computer, nelle automobili, in pratica in tutte le plastiche messe lì per ritardare la fiamma in caso d’incendio.
Tutto prima o poi finisce in un fiume, in un lago, nel mare o nelle falde profonde, messo in moto da un ciclo senza sosta fatto di pioggia, evaporazione e di nuovo di pioggia, il ciclo dell’acqua; che ormai non è più solo il ciclo dell’acqua perché, attaccato all’acqua, ora c’è un piccolo fardello di tante molecole, che diventa sempre più pesante.
Una delle maggiori fonti di inquinamento dell’acqua rimane l’agricoltura convenzionale, che usa massicciamente la chimica industriale. Diserbanti, fungicidi, insetticidi, fertilizzanti, prima o poi finiscono in falda.
Illuminante lo studio dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la protezione e la Ricerca Ambientale dal titolo “Monitoraggio nazionale dei pesticidi nelle acque”.
Si legge che «nel 2009 sono state vendute 147.500 tonnellate di prodotti fitosanitari, con un contenuto di principi attivi pari a 74.200 tonnellate; l'uso interessa circa il 70% della superficie agricola utilizzata. […] Per alcune delle sostanze la contaminazione è molto diffusa e interessa sia le acque superficiali, sia quelle sotterranee di diverse regioni, specialmente nel nord Italia dove le indagini sono più complete e rappresentative.
Gli erbicidi triazinici e alcuni prodotti della loro degradazione, come in passato, sono fra le sostanze più rinvenute sia nelle acque superficiali sia in quelle sotterranee, con concentrazioni spesso superiori ai limiti di riferimento. [...] come nelle zone dove l'uso della sostanza è più massiccio, la contaminazione interessa una percentuale molto elevata dei siti controllati: superiore all'80% dei punti delle acque superficiali in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna.
Come nei rapporti precedenti, si segnala ancora la presenza diffusa in tutta l'area padano-veneta di Atrazina, sostanza fuori commercio da circa due decenni. [...]. La contaminazione residua è più diffusa e raggiunge livelli più elevati nelle acque sotterranee.»
Dunque, da una parte abbiamo acqua sempre più inquinata, dall’altra aumenta la domanda di acqua per la crescita della popolazione mondiale. Più popolazione significa maggiore richiesta di acqua per uso diretto e indiretto - maggiore produzione di cibo, in particolare di carne che è grande consumatrice di acqua, ma anche acqua per la produzione di un qualsiasi bene. Valga l’esempio che dietro una t-shirt di cotone si nasconde un consumo di circa 2.500 litri d’acqua.
Forse siamo arrivati al punto che non ci si può accontentare di dare un valore pecuniario all’inquinamento dell’acqua: pago dunque inquino. Forse dobbiamo iniziare a considerare l’acqua, che è un bene finito di questo nostro pianeta finito, come qualcosa da preservare, che si può e si deve non inquinare.
In quest’ottica si può considerare il progetto di Eau de Paris: l’azienda idrica parigina, da poco ripubblicizzata, si è accordata con gli agricoltori dove sorgono i pozzi di prelievo dell’acqua per arrivare a non inquinare le falde. Ma forse, ci dice la presidente di Eau de Paris, Anne Le Strat, «tutto questo è possibile proprio perché siamo un’azienda pubblica».


http://www.corriere.it/inchieste/reportime/ambiente/non-inquinare-acqua-costa-meno-che-depurarla/a37c98a4-81c4-11e2-aa9e-df4f9e5f1fe2.shtml#.UTurFld25f0.facebook