lunedì 25 marzo 2013



Sprechi e inciuci, così in Calabria l’acqua è sporca


Francesca Chirico

Piante in putrefazione, escrementi di buoi, quell'acqua è inquinata. «Ci stanno avvelenando», dicono
SERRA SAN BRUNO - Bastava conoscere un po’ di botanica. Il trifoglio acquatico (Menyanthes trifoliata) è una pianta strana. Un relitto dell’epoca glaciale che apre i suoi fiori bianchi solo in zone acquitrinose, paludi e stagni. E nelle conca della Lacìna, in mezzo ai faggi e agli abeti delle Serre, una lingua d’Appennino tra la Sila e l’Aspromonte, il trifoglio si era sempre sentito a casa. Bastava conoscere un po’ di storia. Quella delle miniere di ferro di Pazzano che, sullo stesso massiccio montuoso, alimentarono in età borbonica una fiorente industria. E, infine, bastava conoscere un po’ il territorio, magari facendoselo raccontare da boscaioli e cercatori di funghi che quell’angolo di montagna del Vibonese, inumidito dal torrente Alaco, l’hanno sempre considerato buono solo per le leggende, come la storia della baronessa che uccideva i suoi amanti gettandoli nelle paludi attorno, o per pascolare i bovini, ma facendo attenzione ai pantani.

Messi insieme i pezzi, ne sarebbe uscita la nitida fotografia del bacino del torrente Alaco, nel territorio del comune di Brognaturo: paludi, un sottosuolo ricco di ferro e altri minerali pesanti, e oltre 300 specie di piante e fiori, il 26% rare (nel 1996 è arrivata pure la dichiarazione di Sito di interesse comunitario). Un posto da osservare e studiare, magari andandoci in gita con la scuola. E invece, ignorando le indicazioni del trifoglio acquatico, delle miniere di Pazzano e delle leggende del territorio, agli inizi degli anni Ottanta la Cassa del Mezzogiorno decide, con l’avallo degli enti locali, che la conca della Lacina è il posto giusto per un lago artificiale che disseti il comprensorio della Calabria centrale: 400mila abitanti e 80 comuni tra Vibonese, Piana di Gioia Tauro e fascia jonica catanzarese.

È il primo errore di una storia tutta italiana di sprechi, lungaggini e abbracci torbidi tra politica e grandi imprese, momentaneamente finita con i sigilli all’invaso artificiale e indagini per avvelenamento colposo. Nessun dubbio da parte della Procura di Vibo Valentia sul nome da dare all’inchiesta: “Acqua sporca”. Quando cominciano le operazioni per allagare la conca è il 2004 e attorno all’Alaco ci si affaccenda, a singhiozzo, da 30 anni. Consegnati nell’aprile 1985, i lavori dovevano concludersi due anni dopo e con una spesa complessiva di 15 miliardi. Ma i numeri, in questa vicenda, non tornano mai. Sei perizie di variante, nove sospensioni, il passaggio di mano da Casmez a Regione Calabria.

Nel 2000 il procuratore della Corte dei Conti, Nicola Leone, fa esplodere il bubbone: per un lago che non c’è sono stati già spesi oltre 100 miliardi di soldi pubblici. Dieci volte la previsione iniziale. Attorno al lago fantasma, sperando o millantando un futuro boom turistico, c’hanno pure costruito un albergo e una piscina olimpionica, naturalmente mai entrati in funzione. Indaga anche la Guardia di Finanza che accerta irregolarità e un danno erariale di oltre 68 milioni di euro.

Entrando come socio privato nella Sorical - società a capitale pubblico-privato nata nel 2003 per gestire l’approvvigionamento e la fornitura dell’acqua in Calabria - i francesi della multinazionale Veolia non se lo immaginano il pantano dell’Alaco. Con il 46,5% delle azioni e il diritto di esprimere l’amministratore delegato, nei fatti sono loro a far scorrere l’acqua nei rubinetti dei calabresi. Ovviamente dietro il pagamento della fornitura da parte dei Comuni. Più acqua, più soldi. Forse è anche per questo che nella piana della Lacina i francesi accelerano. Nel 2003 Sorical realizza gli ultimi lavori sugli argini e l’anno dopo la conca va sott’acqua. Diventa lago. Dal 2006, infine, dopo un passaggio negli impianti di potabilizzazione, l’acqua dell’invaso comincia a scorrere dai rubinetti di quasi mezzo milione di calabresi. E nella trasparenza dei bicchieri a restituire una verità torbida, giallastra e maleodorante.

Che il terreno dove fioriva il trifoglio acquatico potesse creare qualche intoppo lo aveva ipotizzato il ministero dell’Ambiente fin dal 1998: «È possibile, tenuto conto della modesta profondità dell’invaso previsto e dei presumibili carichi di nutrienti sul suolo, legati alle precedenti attività di pastorizia, che si sviluppino nei primi anni di vita del nuovo specchio idrico processi stagionali di eutrofizzazione che, qualora ponesseo problemi ai fini degli usi idropotabili, dovranno essere risolti con adeguate tecnologie di potabilizzazione». Il problema, però, non sono solo i buoi. «L’acqua dell’invaso presentava una grossa problematica a causa del disfacimento chimico delle piante presenti sul suolo - rivelerà Maurizio Remo Reale, dipendente della ditta che si occupava dell’impianto prima dell’arrivo della Veolia - . Il disboscamento eseguito prima dell’invaso non era stato portato a termine o l’invaso era stato eseguito molto tempo dopo aver pulito, con la conseguente rigenerazione delle piante. L’acqua appariva di colore giallastro e male odorante con una presunta formazione di ammoniaca al suo interno».

Scenario confermato dal responsabile del laboratorio chimico dell’Arpacal, Francesco Maria Russo, ricordando un sopralluogo del 2004: «Nell’acqua c’era la presenza di specie arbustive (ginestre) sommerse, tanto da far supporre che la pulizia del suolo, prima dell’allagamento della superficie prevista per il bacino, era stata fatta in maniera incompleta, probabilmente limitandosi solo agli alti fusti».

Piante in putrefazione, escrementi di buoi, fondo limaccioso e ricco di ferro. Ma l’acqua del lago, denunciano dal 2010 gli attivisti dell’associazione “Il Brigante” di Serra San Bruno, che per primi e tra non pochi problemi hanno sollevato la questione, potrebbe occultare dell’altro. Prima che l’Alaco ricoprisse tutto, infatti, la conca della Lacina era usata anche come discarica, e il timore diffuso da queste parti è che si sia approfittato dell’occasione per nascondere veleni sotto il “tappeto”: ad alimentare sospetti è soprattutto la presenza della ditta “Coccimiglio” di Aiello Calabro, impegnata nei lavori di riempimento del muro della diga e già finita nelle cronache giudiziarie proprio per una questione di acqua e veleni.

Per la procura di Paola, infatti, l’imprenditore Cesare Coccimiglio, rinviato a giudizio per disastro ambientale e avvelenamento delle acque, avrebbe interrato sostanze tossiche nell’alveo del torrente Oliva di Amantea. Quando lavoravano alla diga, giurano ora molti testimoni, i suoi camion trasportavano il materiale di riempimento direttamente da Amantea. Una scelta strana e antieconomica considerata la cava di quarzo a soli 10 km dal bacino. E i dubbi diventano angoscia.

«Ci stanno avvelenando», hanno urlato per due anni gli attivisti de Il Brigante, organizzando sit-in e manifestazioni, sollecitando un’operazione verità e rimbalzando, puntualmente, contro le rassicurazioni di Sorical e lo scaricabarile tra la società e i Comuni responsabili della rete idrica. Fino al maggio scorso e ai sigilli per carenze igienico-strutturali che la Procura di Vibo Valentia, dando seguito alle denunce dei cittadini, ha deciso di imporre all’invaso, al suo impianto di potabilizzazione e a 57 tra serbatoi, sorgenti e pozzi.

«È emerso un quadro estremamente grave, con pregiudizio per la salute pubblica», ha ammesso, senza nascondere un certo sbigottimento, il procuratore Mario Spagnuolo. «Abbiamo registrato anche una notevole confusione sulle competenze che spettano ai singoli enti circa la depurazione, i controlli e la distribuzione delle acque». Tra i ventisei indagati, a vario titolo, per avvelenamento colposo di acque, inadempienza del contratto di pubblica fornitura, interruzione di pubblico servizio, omissione in atti d'ufficio e falso sono, in effetti, rappresentati tutti gli enti preposti a vigilare sull’invaso e sulla qualità dell’acqua: i vertici della Sorical, ma anche i dirigenti dell’Arpacal (agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) e di alcune Asp, sindaci e dirigenti regionali. Nei fatti, sostengono i magistrati, il problema dell’acqua sporca ha origine proprio nell’invaso dell’Alaco e i controlli, pochi e confusi, non sono stati capaci di evitarlo.

E ora? Nonostante i sigilli e la nomina di un custode giudiziario, poco è cambiato. Sergio Gambino (“Il brigante”) parla chiaro come amava fare il padre, lo scrittore e giornalista calabrese Sharo Gambino, tra i primi in Italia a scrivere di ’ndrangheta. «Nei nostri rubinetti continua a scorrere l’acqua dell’Alaco e noi continuiamo ad avere paura perfino di farci la doccia. Se non si studia al più presto un’alternativa al sistema Alaco l’unica soluzione potrebbe essere quella di lasciare un territorio che amiamo. Perché l’acqua è vita, tutto ruota attorno all’acqua e l’acqua dell’Alaco è acqua morta».




http://www.linkiesta.it/conca-lacina-acqua-sporca





Nessun commento:

Posta un commento