lunedì 23 gennaio 2012


 Assalto all'acqua e alla bio-diversità

Per l'agricolura in affitto servono dighe

di Stefano Liberti

Enormi quantità d'acqua sono necessarie per l'irrigazione dei campi dati in affitto agli investitori internazionali. Di acqua l'Etiopia è ricca e il governo di Meles Zenawi ha fatto della gestione delle risorse idriche una priorità, testimoniata dalla recente iniziativa per creare una commissione regionale sulle acque del Nilo, un'alleanza dei vari paesi interessati dallo scorrere del fiume per una più equa ripartizione delle sue acque, che accordi successivi del 1929 e del 1959 davano in modo prioritario all'Egitto e al Sudan. La tensione potrebbe ora portare a un nuovo conflitto d'area - o all'esacerbarsi di crisi già esistenti per interposti appoggi di potenze regionali rivali.
Esistono vari progetti di dighe lungo il corso del Nilo blu, che si vanno a unire alle infrastrutture già costruite dal governo etiopico negli ultimi anni: dalla diga di Tana Beles, inaugurata pochi giorni fa, alle varie opere realizzate o in via di realizzazione lungo il corso dell'Omo river. Su quest'ultimo fiume sorgono le dighe Gilgel Gibe I, Gilgel Gibe II (costruita sempre dalla Salini e al momento inoperante a causa del crollo del tunnel principale poche settimane dopo la sua inaugurazione nel gennaio scorso alla presenza del ministro degli esteri Franco Frattini) e sorgerà Gilgel Gibe III, la controversa nuova diga la cui realizzazione è stata nuovamente affidata alla Salini. 
Queste dighe, il cui obiettivo principale è la produzione di energia elettrica per l'esportazione, in particolare verso Gibuti e il Kenya, possono anche servire a un altro scopo: il flusso controllato dei fiumi o la loro deviazione possono rendere molto più fertili alcune terre, che diventeranno più appetibili per gli investitori stranieri. Al ministero dell'agricoltura e dello sviluppo rurale di Addis Abeba, hanno redatto un piano dettagliato di terre da affittare lungo il corso del fiume Omo. 300mila ettari, «irrigabili con l'acqua del fiume», da destinare alla produzione di «cotone, sesamo, soia». Un piano che i tecnici del ministero definiscono «uno dei tanti in cantiere in una delle aree più strategiche per gli investitori a causa della scarsa densità di popolazione». 
In realtà, sembra esserci un legame abbastanza coerente tra le opere di sbarramento e l'affitto delle terre, tanto che il consiglio dei ministri ha pensato bene l'anno scorso di approvare una direttiva che autorizza gli investitori stranieri a utilizzare a costo zero (o, a seconda dei casi, a un prezzo molto contenuto) le acque scaturite da dighe costruite dal governo. È già il caso del gruppo Saudi Star, che nella regione di Gambella, usa in misura gratuita l'acqua della diga di Alu Wero, costruita durante il regime del Derg. È il caso della ditta italiana Fri-El Green, che per irrigare i suoi 30mila ettari di palme da olio e jatropha utilizza l'acqua derivante da una deviazione del fiume Oro. 
Le dighe e l'agricoltura intensiva sembrano essere due facce di un piano di sviluppo ben congegnato. Un piano che il governo difende a spada tratta, ma che varie organizzazioni internazionali considerano devastante sia per la bio-diversità che per le comunità che vivono nelle terre intorno al fiume. Secondo uno studio condotto dall'associazione Survival international, la diga Gibe III porterà a un pericoloso abbassamento del livello delle acque del lago Turkana, in Kenya, mettendo a rischio la sopravvivenza delle 300mila persone che vivono nell'area e producendo ulteriori fattori di tensione. 
Che esista un legame tra le opere idrauliche e l'affitto delle terre è testimoniato in modo indiretto anche da un comunicato postato dalla Salini costruttori sul suo sito web: «L'agricoltura potrà contare su una quantità di acqua con portata costante tutto l'anno, consentendo quindi più raccolti e l' impiego di tecniche agricole più moderne». Il problema è che Gibe III è rimasta bloccata per diverso tempo. Affidata senza gara d'appalto alla ditta italiana per un investimento inizialmente stimato sull'1,8 miliardi di euro, l'opera è stata interrotta per mancanza di soldi. Tutti i vari finanziatori - dalla Banca europea per gli investimenti, alla Banca africana per lo sviluppo, dalla Banca mondiale alla Direzione generale della cooperazione allo sviluppo italiana (Dgcs) - sono rimasti a guardare e non hanno sbloccati i fondi necessari. Nelle ultime due settimane un nuovo attore è entrato in gioco: si tratta della Chinese Dongfang Electric Corporation (Dec), che ha firmato un contratto volto alla realizzazione della parte idro-meccanica del progetto per un ammontare di 459 milioni di dollari (i quali saranno forniti quasi tutti a un tasso agevolatissimo dalla Industrial and Commercial Bank of China). La ditta cinese assicura che sarà sempre Salini a occuparsi della costruzione della diga. Ma i soldi per il momento non ci sono, a meno che alla fine la Dgcs non decida di bere l'amaro calice e sbloccare i 250 milioni di euro che le sono stati richiesti, come ha fatto con lo sfortunato progetto di Gibe II. Se questo accadrà, i lavori procederanno rapidi e gli investitori agricoli avranno un altro motivo per gioire.

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venerdì, 04 giugno 2010; 23:47

 In Provincia dieci comuni fuori norma
Acqua potabile solo per deroga
Concentrazioni di arsenico oltre i limiti

L’ACQUA del rubinetto viene bevuta in deroga in moltissimi comuni della provincia tra cui spiccano Latina, Cisterna, Aprilia, Sabaudia e San Felice Circeo. A denunciare la situazione è il giornale on line «Salvagente». Sotto accusa c’è l’acqua di mezza Italia, bevibile per legge ma non certo per caratteristiche chimiche. Arsenico, boro, fluoro, nitrati, vanadio e trialometani le sostanze maggiormente presenti nelle acque italiane. Una colpa che sarebbe da attribuire all’origine vulcanica, anche se non si può escludere una certa influenza della mano dell’uomo. Nella Regione Lazio sono ben 92 i comuni che hanno dovuto chiedere una deroga nel 2009. Tante erano infatti le amministrazioni non a norma sparsi tra Viterbo, Roma e Latina. L’ultimo decreto del Ministero della Salute che concede deroghe è datato marzo 2010 e conferma anche per quest’anno tolleranza per vanadio, clorito e trialometani. Non è specificato per quali territori e non fornisce un quadro completo perché l’emergenza colpisce anche fluoro, arsenico e boro. In zona i comuni coinvolti sono ben 10 su 33: Latina, Aprilia, Cisterna, Cori, Sermoneta, Pontinia, Sabaudia, San Felice Circeo, Sezze e Priverno dove si registra la presenza di Arsenico. In pratica in oltre un terzo della provincia di Latina l’acqua si beve in deroga. A questi bisogna poi aggiungere anche Anzio e Nettuno, che si trovano in provincia di Roma ma che comunque sono parte integrante dell’Ato 4 (l’ambiente territoriale ottimale) così come la stragrande maggioranza delle amministrazioni del comprensorio pontino. In realtà non si tratta di nulla di scandaloso per le zone di origine vulcanica e dell’orografia complessa, che rende le nostre acque naturalmente ricche di metalli pesanti. E per rimediare c’è comunque una scappatoia. Lo prevede la stessa legge 31 del 2001, adeguamento di una direttiva europea: le amministrazioni che si rendono conto di avere parametri non in regola possono fare richiesta di deroga alla Regione, che a sua volta la gira al Ministero della Salute, che, ascoltato il parere Consiglio superiore di sanità, concede che l’acqua venga comunque destinata «a uso umano» e bevuta, ma a certe condizioni. Tra queste, la presentazione di un piano di interventi per bonificare le acque, e l’impegno a informare la cittadinanza del problema. Fino a oggi non è mai successo che il ministero rifiutasse una deroga. Peccato però che allo stato attuale non si è visto un comune o una società distributrice «pubblicizzare» la vicenda. Ed anche qui in provincia non facciamo eccezione. Mentre sarebbe molto più utile che Acqualatina, l’azienda che gestisce il servizio idrico dell’Ato4, informasse la cittadinanza sui rischi derivati dall’alta concentrazione di arsenico. Invece la società non sembra interessata ad affrontare l’argomento. L’ultima volta che l’ha fatto in riposta ad un’inchiesta (maggio 2005) l’ufficio stampa affermò che non c’era nessun pericolo. «Lì dove le percentuali di arsenico sono superiori a quelle consentite - spiegarono - facciamo entrare acqua da fonti i cui valori sono bassi. Dunque si può bere». Ma sarebbe comunque utile sapere se negli ultimi cinque anni si sono fatti passi avanti prevedendo un piano di bonifica. E non consola sapere che le amministrazioni «non a norma» sono diminuiti in maniera sensibile, né sapere che casi peggiori si riscontrano in altre nazioni. «A dispetto delle apparenze in alcune zone d’Italia - afferma Renato Drusiani, responsabile Acqua per Federutility, la federazione delle imprese energetiche e idriche - si è lavorato molto in questi anni e si è investito tanto sulla qualità dell’acqua. E poi l’Italia non è messa peggio di altri paesi. Il problema delle deroghe per lo più è stato originato dal fatto che, con il recepimento della direttiva europea, sono stati abbassati drasticamente i limiti ammissibili delle sostanze indesiderate, e di colpo molti Comuni si sono trovati non in regola».
I CASI IN ITALIA
IL primato dell’acqua «non a norma» va alla Campania, in deroga permanente da ben sette anni perché dal 2002 non riesce a far rientrare i livelli di fluoro. Ma l’elenco delle Regione che oltre i limiti di legge è piuttosto lungo: il Lazio vi compare dal 2006 (fluoro, arsenico e vanadio oltre i limiti), la Toscana dal 2003 (prima magnesio e solfati, poi arsenico, boro e trialometani a cui si sono aggiunti i cloriti), la Lombardia dal 2004 (arsenico) come il Piemonte (arsenico e nichel, rientrato del 2008) e la Puglia (cloriti fino al 2006 etrialometani) . Nel 2009 ben otto regioni hanno rinnovato la richiesta, ma anche in questo caso la situa zione non si è modificata. Per il 2010 sono in attesa di un responso Lazio, Toscana, Trentino, Lombardia e Campania ma l’iter ora è più complicato. Dovranno attendere la valutazione del comitato scientifico Scher dell’Unione Europea che si esprimerà sulla validità dei piani di intervento. E dal 2012 niente più deroghe.
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giovedì, 03 giugno 2010; 09:28

CRONACA 
L'UDIENZA PRELIMINARE È STATA FISSATA AL 22 SETTEMBRE
Acqua, la procura vuole il processo
Prima svolta nella intricata vicenda della gestione del servizio idrico in provincia di Frosinone.

La procura ha, infatti, chiesto il processo per le cinque persone rimaste coinvolte nell'inchiesta giudiziaria portata avanti, per quasi due anni, dalla Guardia di Finanza su delega del sostituto procuratore Tonino Di Bona. Francesco Scalia, all'epoca dei fatti contestati (la procura ha preso in esame le annate tra il 2007 e il 2009) presidente dell'Amministrazione Provinciale e presidente dell'autorità d'ambito Ato5; due ex dirigenti di Acea Ato5; un tecnico della società e un tecnico della Sto, il prossimo 22 settembre dovranno comparire davanti al gup del Tribunale di Frosinone, Mario Parisi, per rispondere degli addebiti contestati. Abuso d'ufficio in concorso, truffa in concorso, frode nelle pubbliche forniture in concorso e poi soppressione, distruzione e occultamento di atti e falso materiale sono i reati che la procura contesta, a vario titolo a seconda dei ruoli ricoperti e delle qualifiche professionali assunte, ai cinque imputati. Fin qui le accuse del pm, ma ora sarà il gup a decidere se, in base alle contestazioni formulate, la vicenda sarà meritevole di un processo o se il tutto sarà da archiviare. L'inchiesta prese le mosse da una dettagliata denuncia presentata il 4 settembre 2008 da Antonio Salvati, sindaco Pdl di San Giovanni Incarico, nonché sulla scorta di denunce ed esposti dei comitati di cittadini come il Cocida, capeggiato da Mario Antonellis. Poi sono seguiti gli accertamenti della tenenza di Sora della Guardia di Finanza e del nucleo di polizia tributaria delle fiamme gialle. Gli imputati saranno difesi dagli avvocati Mario Di Sora, Gianrico Ranaldi, Carlo Taormina, Giulia Bongiorno e Ciro Pellegrino. Pie. Pag.

http://iltempo.ilsole24ore.co

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giovedì, 03 giugno 2010; 07:01



Grecia annuncia privatizzazioni,

prevista vendita 49% ferrovie

ATENE (Reuters) - La Grecia svela il piano di privatizzazioni che il paese realizzerà nei prossimi anni.
Secondo quanto annunciato stamane in una conferenza stampa al termine della riunione del consiglio dei ministri, è prevista la vendita del 49% delle ferrovie di stato (Ose) e del 39% delle poste (Hellenic Post). Il governo tuttavia manterrà invariate la proprie partecipazioni nella Ote, il principale operatore telefonico nazionale, e nell'utility Ppc.
Tra le altre misure c'è la cessione del 23% dell'utility Thessaloniki Water Eyath e la totale privatizzazione dei casinò pubblici. Verranno quotate altre società di gestione dei porti, mentre verranno create nuove società di gestione aeroportuale, anch'esse destinate alla borsa.
"Il nostro obiettivo è di avere uno stato che garantisce i servizi pubblici ma che allo stesso tempo dia un impulso al dinamismo dell'economia greca" ha dichiarato il ministro delle finanze George Papaconstantinou.
Come contropartita del piano di sostegno finanziario da 110 miliardi garantito dall'Ue e dal Fmi, la Grecia si è impegnata a mettere a punto entro fine anno un programma di privatizzazioni che grantisca ricavi per almeno 1 miliardo l'anno dal 2011 al 2013.
Sul sito www.reuters.it altre notizie Reuters in italiano
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martedì, 01 giugno 2010; 21:39


ACQUA BENE COMUNE, PERCHÉ NON VA LA GESTIONE PRIVATA
di Ugo Mattei

Ho letto le «precisazioni sull'acqua e su altro» di Vito Gamberale (il manifesto 29/5) e negli ultimi due giorni, come co-estensore dei quesiti referendari e di collaboratore del manifesto, ho partecipato a dibattiti affollati dove ho portato proprio l'esempio di Iride e dell'operazione F2i per mostrare come sia la struttura stessa della società per azioni (pubblica o privata) ad essere incompatibile con la gestione di un bene comune quale l'acqua, indipendentemente dalle virtù, certo vere nel caso di Gamberale. 
Ci dice Gamberale che F2i è un fondo «giuridicamente privato ma dal profilo rigorosamente istituzionale» il quale costituisce «per gli investimenti societari che si vanno ad effettuare» una «garanzia di stabilità dell'azionariato» ed è dunque «il giusto e pressoché unico soggetto privato che possa garantire l'efficienza gestionale del privato e la tutela istituzionale del pubblico». Ne segue che, «demagogia a parte», solo il suo fondo insieme ad Iride (recente fusione fra multiutilities di Torino e Genova) consentirebbe di superare il fatto (presentato con tono di scandalo) per cui «utilities del nord ancorché con riferimenti societari pubblici facciano profitti» mentre quelle del sud «vendendo gli stessi servizi agli stessi prezzi specifici creino perdite e quindi impossibilità di sviluppo». Insomma: profitti sull'acqua anche al sud!
Il linguaggio aziendalistico non potrebbe essere più netto. Del resto ogni buon Ad che «compete» in modo efficiente per un mercato globale è motivato dal profitto proprio e da quello dei suoi azionisti. Chi non condivide questa logica di «efficiente gestione» che promuove «sviluppo» e «crescita» fa «demagogia» solo perché (dopo quindici anni di malagestione for profit) non crede più nella barzelletta dell'investimento privato nelle infrastrutture pubbliche! In effetti, un buon manager come Gamberale che vuole gestire l'acqua come merce ha il dovere istituzionale verso i suoi azionisti di cercare qualunque opportunità che «remuneri» i suoi «investimenti». La buona logica societaria fa sì che le «ex municipalizzate» (tipo Iride) partecipino al grande gioco della finanza, cercando affari ovunque questi si trovino. Insomma, per fare asili pubblici a Torino (a voler pensar bene) si opera sull'acqua in Sicilia, cercando profitti e remunerazione degli investimenti garantiti dalla maggior scarsità della «merce» su quel territorio! E poi naturalmente Torino cercherà profitti a Cuba, in Cina, India o in Africa investendo magari in quelle grandi dighe che da anni sappiamo provocare guerre, carestie e siccità, con conseguente scarsità e aumento della rendita.
Tale logica efficientistica puramente quantitativa votata alla crescita e alla competizione globale non solo va a discapito della qualità nella gestione dei servizi pubblici locali: a noi pare che vi siano anche forti elementi morali e di coesione sociale che la rendono inadatta alla gestione dei beni comuni. Noi vogliamo che i beni comuni vadano gestiti secondo il criterio del «bisogno» e della garanzia dei diritti fondamentali della persona in base agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Sappiamo che essi devono stare fuori dal mercato e che gli investimenti della collettività sui beni comuni non devono garantire profitti ma essere gestiti con in mente soltanto l'equilibrio ecologico, la qualità, l'accesso al servizio, l'interesse delle comunità e delle generazioni future. Per far questo siamo chiamati, come comunità (e giuristi), ad inventare assetti istituzionali nuovi, volti alla diffusione del potere decisionale e alla partecipazione democratica dei «stakeholders», ovvero le comunità di utenti e di lavoratori che, secondo l'art. 43 Costituzione, devono gestire i monopolii naturali quali il servizio idrico secondo modelli nuovi nello spirito della cooperazione. 
Se si vincono i referendum sull'acqua, la logica del profitto e quella aziendalistica degli Ad (pur virtuosi come Gamberale) sarà abrogata, insieme al Decreto Ronchi che la impone e alle altre leggi che la consentono. In fondo tanto l'aziendalismo quanto lo statalismo sono informati alla medesima logica della concentrazione del potere e della gerarchia autoritaria. È per questo che che li vogliamo cacciare, quanto meno dal bene comune acqua, per togliere gli ostacoli ad una nuova via. La possibilità concreta di una prima grande «inversione di rotta» nel rapporto fra pubblico e privato entusiasma l'imponenete movimento democratico per i referendum. Noi vediamo negli accordi fra Iride e F2i sull'acqua una nuova escalation della vecchia logica e retorica, che va abbandonata senza altri indugi per la salvezza di tutti.

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martedì, 01 giugno 2010; 20:56


Pozzi avvelenati nell'area Resit di Giugliano, altissimo
rischio per coltivazioni e abitazioni rurali
28 maggio 2010
Daniela De Crescenzo

Aveva ragione il pentito Vassallo: i terreni a nord di Napoli, quelli della ex discarica Resit, sono stati avvelenati da lui, dai suoi fratelli e dall'avvocato Cipriano Chianese con la complicità di quelli che ne hanno autorizzato l'utilizzo. E non solo: anche la falda acquifera contiene sostanze cancerogene. Lo sostiene il geologo Giovanni Balestri nella relazione consegnata a marzo alla Dda di Napoli.
I magistrati, infatti, lo avevano incaricato di verificare la situazione dopo le dichiarazioni del manager dei rifiuti pentito. L’incartamento è poi stato inviato alla Regione e mercoledì si è svolto un vertice al dipartimento nazionale di protezione civile con l’assessore Giovanni Romano, il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Marco Lupo, e il commissario alle bonifiche,Mario De Biase. Sono stati immediatamente stanziati 50 milioni di euro per risanare l'area della ex Resit e dei laghetti di Castelvolturno in stretto raccordo con la procura della Repubblica. Un intervento deciso praticamente ad horas vista la gravità della situazione descritta da Balestri: «Il ritrovamento in falda di sostanze cancerogene quali il nitricloro e il tetracloro etilene direttamente e unicamente riconducibili alle attività delle discariche Resit in località Scafarea e alla tipologia dei rifiutiin essa smaltiti...comporta l’avvelenamento della falda acquifera sottostante gli impianti». Secondo l’esperto la contaminazione futura della falda acquifera si estenderebbe «sin oltre i confini provinciali interessando la popolazione di numerose masserie che utilizzano ancora i propri pozzi anche per l'uso alimentare personale. Ugualmente in zona sitrovano numerose attività agricole e zootecniche che utilizzano l'acqua estratta da questa falda per l’irrigazione e il beveraggio».
E ancora: «La contaminazione può raggiungere i numerosi fossi e canali risalentialla rete idrica superficiale dei Regi Lagni, se in collegamento idrico diretto con la falda in questione». Secondo i calcoli del geologo (che si è avvalso per le analisi di un laboratorio di Forte dei Marmi) l’infiltrazione di 14 mila tonnellate di percolato mostrerà tutta la sua carica letale entro il 2064. Infatti il liquido velenoso nei 23 anni di funzionamento della discarica non è mai stato smaltito.
Inoltre: le pareti del sito non sono state impermeabilizzate. Spiega Balestri: «questo percolato attraverserà naturalmente il tufo sotto l’invaso in 79 anni dal loro inizio dell'accumulo (almeno dal1985 ) nell’ipotesi più lenta, quindi il disastro ambientale inevitabile inizierànon più tardi del 2064». Nella Resit sarebbero state sotterrate 341 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, a cominciare dai fanghi dell'Acna di Cengio; 160 mila e 500 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi; 305 mila tonnellate di rifiuti solidi urbani.
E gli sversamenti sarebbero continuati fino al 2008 anche se il sito era stato sequestrato già nel 2004.
Non salva nessuno il geologo: al momento del passaggio di gestione al consorzio di bacino Napoli 3, la discarica era ampiamente sfruttata e non più utilizzabile. E come se non bastasse, ricorda Balestri, nel periodo dal 2001 al 2003 il sub commissario Facchi aveva concesso alla Resit dell'avvocato Chianese, già più volte indagato, un venti per cento delle volumetrie ancora disponibili alla Scafarea per lo sversamento di rifiuti
speciali di provenienza privata e questo ha fatto sì che negli invasi Resit (congestionati dal sovrautilizzo) si
arrivasse ad un’inevitabile miscellanea di rifiuti pericolosi privati con rifiuti non pericolosi. Per concludere nel periodo tra il 2003 e il 2004 secondo il docente si sarebbe realizzato un ulteriore sovrasfruttamento del sito. In quel periodo era stato infatti chiuso un accordo con Fibe Campania per lo stoccaggio delle balle. E Balestrieri spiega: «Tale stoccaggio, finito subito male per i ripetuti incendi, non doveva essere assolutamente messo in opera». Nulla è stato risparmiato alla terra dei fuochi. Una storia di abusi ripetuti che si dovrebbe concludere con la bonifica: «Stiamo cominciando ad affrontare – dice Romano – questioni fondamentali che non siaffrontavano, in Campania, da un quarto di secolo.
Non appena abbiamo ricevuto dalla Procura della Repubblica, la notifica dei risultati delleanalisi, con il presidente Caldoro, ci siamo attivati verificando da subito l’importanza della situazione».

Fonte: Il Mattino

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venerdì, 28 maggio 2010; 13:17

Stop all'«in house» e no a tariffe minime
Il cantiere delle liberalizzazioni è fermo, in alcuni casi si sono fatti passi indietro. È impietosa l'analisi di Confindustria sulle riforme per la concorrenza, un monito che giunge nelle settimane in cui si lavora al disegno di legge annuale sulle liberalizzazioni. Il governo, su proposta del ministero dello Sviluppo economico, dovrà presentare il testo entro la fine di giugno. In seguito alle dimissioni del ministro Claudio Scajola, l'iter ha rallentato ma adesso, dopo le sollecitazioni di Marcegaglia e la risposta di Berlusconi, potrebbe ritrovare slancio. Dovrebbero trovare spazio le misure per la rete carburanti alle quali si è lavorato al tavolo coordinato dal sottosegretario Stefano Saglia, si metterà mano al settore postale e potrebbero essere introdotte semplificazioni per il cambio di fornitore nell'energia elettrica e nella telefonia. Eventuali proposte su altri settori dovranno arrivare da differenti ministeri.
Difficile però che il menu fin qui configurato possa bastare a spazzare via le preoccupazioni. Marcegaglia parla di segni di «allergia al mercato». Il primo obiettivo, secondo le proposte di "Italia 2015", deve essere fermare la creazione di imprese pubbliche in house e ridurre il numero di quelle esistenti. Le riforme, è la tesi, non hanno funzionato nel trasporto ferroviario e nel commercio, fermate in quest'ultimo caso dalle regioni. L'«opposizione corporativa di molti ordini professionali» ha poi annacquato il decreto Bersani del 2006, con l'aggravante dell'ipotesi di reintrodurre le tariffe minime. Le liberalizzazioni sono l'unico punto di disaccordo su cui Berlusconi sceglie di rispondere dal palco: «Non abbiamo fatto nessuna marcia indietro sulle liberalizzazioni, nel commercio e nelle professioni – dice – anzi continuiamo in questa direzione».
C.Fo.
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venerdì, 28 maggio 2010; 13:16



E' stata definitivamente adottata dal Parlamento francese la legge sulle società pubbliche locali

Il senato francese ha adottato ieri la proposta di legge sullo sviluppo delle società di gestione dei servizi pubblici locali. Da oggi gli enti locali potranno avvalersi  di una nuova forma di impresa al fine di ottimizzare la gestione dei servizi pubblici locali.
Dopo l'approvazione del parlamento del 23 marzo scorso, e dopo l'approvazione in prima lettura dello stesso Senato del 4 giugno 2009, il Senato ha adottato ieri all'unanimità la proposta di legge istitutiva delle Società pubbliche locali (Spl) depositata da Daniel Raoul, senatore eletto nel distretto di Maine-et-Loire, e sostenuta da 271 parlamentari di tutti gli schieramenti politici, oltre che dallo stesso governo.
Fino a ieri destinate esclusivamente alla gestione dei servizi (Spla), queste società anonime, create e possedute al 100% da almeno due collettività locali o da loro raggruppamenti, potranno ora realizzare e gestire dei servizi pubblici a livello industriale o commerciale, così come tutte le altre attività di interesse generale.
Considerate come delle emanazioni delle stesse amministrazioni locali, le Spl non dovranno essere messe sul mercato da parte delle amministrazioni che ne detengono la proprietà. 
Come contropartita queste potranno lavorare esclusivamente per conto dei loro azionisti e unicamente sul loro territorio. Le Spl non rappresentano solo una particolarità tutta francese: l' 80% delle 16.000 Imprese Pubbliche Locali censite in Europa sono ugualmente delle imprese di diritto privato a capitale interamente pubblico.

Una nuova tappa verso un' amministrazione libera da parte delle amministrazioni locali

"E' una notizia eccellente per tutti gli eletti e per tutti i servizi pubblici locali", ha affermato Martial Passi, presidente della Federazione delle Imprese pubbliche locali, una rete composta da eletti di tutti gli schieramenti politici, nonchè  principale promotore di questa riforma.
"Come la maggioranza dei loro omologhi europei, gli eletti del nostro paese potranno ora fare ricorso ad una struttura elastica e reattiva che risponde interamente all'amministrazione che ne detiene la proprietà, un nuovo modello di gestione dei servizi pubblici locali capace di mettere assieme i vantaggi del modello privatistico con la proprietà pubblica dell'impresa.
"Questa sarà la forma giuridica che andranno ad assumere tutti i soggetti economici e sociali che operano sul nostro territorio e che vorranno beneficiare di questo nuovo modello di gestione", ha aggiunto Martial Passi, ricordando il ruolo di impulso svolto per le imprese pubbliche locali, dopo numerose forme di impresa in particolare nel settore delle costruzioni e dei lavori pubblici e dei servizi.
Per jean-Leonce Dupont, vicepresidente del Senato e della Federazione delle imprese pubbliche locali, "La libertà di gestione degli enti locali vive oggi un giorno memorabile. Era essenziale per il rilancio dell'economia francese e per l'avvenire dei territori, che le amministrazioni locali, che rappresentano il 73% degli investimenti pubblici in Francia, potessero avvalersi di un nuovo strumento di gestione, delle società per azioni a capitale interamente pubblico di tipo moderno, fondate sull'efficienza e sulla solidarietà". In occasione del dibattito assembleare, Jacques Mèzard relatore del testo di legge al Senato ha sottolineato che la volontà del legislatore di offrire alle amministrazioni locali "Un nuovo strumento di intervento per assolvere la funzione di interesse generale in condizioni ottimali di rapidità, costo e affidabilità giuridica"individua un unico elemento discriminante: l'efficienza della gestione locale.

La gamma delle imprese pubbliche locali si arricchisce 

La società pubblica locale completa la gamma delle imprese pubbliche locali, detenute in maggioranza o in modo esclusivo da amministrazioni locali, fino a ora composta dalle Società ad economia mista (Sem), che associano  capitali pubblici e privati, e le Società pubbliche locali di gestione (Spla), interamente pubbliche.
Queste ultime, che esistono solamente a scopo sperimentale, hanno vista la loro esistenza prolungata a causa di una legge che ha esteso il loro campo di azione a dei settori legati a particolari forme di gestione, come la realizzazione di studi preliminari, le operazioni di costruzione e di riabilitazione e l'acquisizione o la vendita di fondi commerciali.
Spl, Spla e Sem rappresentano quindi tre soluzioni complementari nell'ambito della gamma offerta di opzioni: "In funzione della posta in gioco e delle loro problematiche, le amministrazioni locali possono a questo punto scegliere tra una vasta gamma di imprese pubbliche locali nell'ambito di modelli  di gestione pubblico-privati che sono rappresentati dalle Sem, o da gestioni interamente pubbliche rappresentate dalle Spl e dalle Spla" , ha concluso Martial Passi.




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mercoledì, 26 maggio 2010; 21:45

Bere l'acqua del rubinetto? 

Città  che vai deroga che trovi In molti comuni i consumatori ingoiano ignari acqua fuori legge, grazie a speciali dispense sulla potabilità . Il Salvagente ha passato in rassegna tutte le scappatoie adottate dagli enti locali Approfondimenti SCHEDA: Le regioni fuorilegge In alcuni comuni dall'Italia l'acqua del rubinetto è vietata ai minori di 14 anni, quasi fosse un medicinale. In altri i cittadini devono correre ogni giorno a comprare l'acqua in bottiglia, perchè¨ scattato per tutti il divieto di potabilità . E poi la grande quantità  di comuni in cui i consumatori ingoiano ignari quel che esce dai rubinetti e che tutti i requisiti per essere bevuto non li ha. Eppure, come spiega il Salvagente in un'™inchiesta che sarà  in edicola da giovedì 27 maggio, in tutti questi casi - a volte senza che neppure i cittadini ne siano informati - l'acqua è perfettamente legale, grazie a deroghe concesse da anni agli enti locali che non riescono a rientrare nei limiti di legge sulla potabilità .  Il Paese delle deroghe  Da quando nel 2001 è entrata in vigore la norma che impone regole più stringenti sulla presenza di inquinanti e metalli pesanti, 13 Regioni su 20 hanno fatto richiesta al ministero della Salute di consentire a questo o a quel Comune di dichiarare bevibile la sua acqua, nonostante gli sforamenti.  Tra i paesi europei l'Italia è quello che, per stessa denuncia della Ue, ha approvato più richieste di deroga. Arsenico, boro, fluoro, nitrati, vanadio e trialometani le sostanze i cui livelli più spesso eccedono. Colpa soprattutto dell'origine vulcanica del nostro territorio, e della orografia complessa, che rende le nostre acque naturalmente ricche di metalli pesanti. Ma anche la mano umana ha fatto la sua parte, e lo si nota rilevando residui di sostanze usate in agricoltura, o sottoprodotti dei processi di potabilizzazione.  Per rimediare c'è la scappatoia. Lo prevede la stessa legge 31/01, adeguamento di una direttiva europea: i Comuni che si rendono conto di avere parametri non in regola possono fare richiesta di deroga alla Regione, che a sua volta la gira al ministero della Salute, che, sentito il Consiglio superiore di sanità , concede che l'acqua venga comunque destinata ad uso umano e bevuta, ma a certe condizioni. Tra queste, la presentazione di un piano di interventi per bonificare le acque, e l'impegno a informare la cittadinanza del problema.  Fino a oggi non è mai successo che il ministero rifiutasse una deroga. D'altro canto, difficilmente si è visto un Comune o una società distributrice pubblicizzare  questi problemi. Quanto agli interventi, 9 anni non sono stati sufficienti a eliminare le criticità , specie in alcuni territori. Lo testimoniano i report annuali di Cittadinanzattiva, che da anni monitora la purezza delle acque italiane. Dall'ultimo dossier sul servizio idrico integrato, pubblicato a ottobre 2009, emerge la situazione in tutta la sua assurdità .  Il federalismo del rubinetto  Il primato va alla Campania, in deroga permanente da 7 anni, perchè dal 2002 non riesce a fare rientrare i livelli di fluoro. Ma l'elenco è lungo: il Lazio vi compare dal 2006 (fluoro, arsenico, e vanadio oltre i limiti), la Toscana dal 2003 (prima magnesio e solfati, poi arsenico, boro, e trialometani, cui si sono aggiunti i cloriti), la Lombardia dal 2004 (arsenico) come il Piemonte (arsenico e nichel, rientrato nel 2008) e la Puglia (cloriti fino al 2006 e trialometani). Nel 2009 in 8 hanno rinnovato la richiesta. Ma anche in questo caso la situazione non si è di molto modificata.  Per il 2010 sono in attesa di un responso Lazio, Toscana, Trentino, Lombardia, e Campania, ma le cose si vanno facendo più difficili. Da quest'anno dovranno attendere la valutazione del comitato scientifico Scher dell'Unione europea, che si esprimerà  sulla validità  dei piani di intervento. E dal 2012 non avranno più scappatoie: niente più deroghe. Intanto hanno tre anni di tempo, anche se il primo pronunciamento del comitato non fa presagire molta tolleranza. Constatando che in alcuni territori i livelli di inquinanti superano di ben cinque volte i valori massimi ammissibili, lo Scher ha dichiarato che l'acqua italiana arriva in alcuni casi a mettere a rischio la salute di bambini e adolescenti, specie se le sostanze fuori legge sono arsenico, boro e fluoruro.   E' Colpa di Bruxelles Non consola, saperlo. Anche se qualcuno fa vedere l'altra faccia della medaglia. Il numero effettivo dei comuni dove l'acqua servita è non a norma infatti è diminuito molto. Lo afferma Renato Drusiani, responsabile Acqua per Federutility, la federazione delle imprese energetiche e idriche. A dispetto delle apparenze, in alcune zone d'Italia si èlavorato molto in questi anni, e si è investito tanto sulla qualità  dell'acqua E poi, dice che l'Italia non è messa peggio di altri paesi. Il problema delle deroghe per lo più stato originato dal fatto che, con il recepimento della direttiva europea, sono stati abbassati drasticamente i limiti ammissibili delle sostanze indesiderate, e di colpo molti Comuni si sono trovati non in regola. Faccio un esempio: l'Oms ha ridotto di cinque volte i livelli consentiti di arsenico, eppure l'arsenico  è stato bevuto per millenni dagli abitanti della Toscana e del Lazio, perchè è  presente naturalmente nelle acque. Diversamente, negli stessi anni è sparito il problema dei cloriti, derivati dall’uso di disinfettanti, perché a livello internazionale è stata stabilita una soglia più  alta”.  Insomma, molti Comuni sarebbero stati messi in crisi dalla burocrazia. Ma mentre qualcuno è riuscito a mettersi in regola, altri hanno continuato a servire ai propri cittadini acque non proprio limpide. 
Fonte: Il Salvagente 


claudiomeloni; ; commenti ?


mercoledì, 26 maggio 2010; 21:14


L’acqua è dei cittadini. Fermiamo i distacchi di Acea

Quando Acea dice salta, il comune risponde: quanto in alto? Quando la multinazionale chiama, chi ci rappresenta risponde: subito. Questo è il messaggio che trapela dalla riunione a porte chiuse che si è svolta questa mattina tra il management di Acea Ato 2 Spa e l’amministrazione comunale. Il comitato acqua pubblica aveva chiesto all’assessore Pocci e al sindaco Servadio di poter partecipare all’incontro, in rappresentanza delle cinquecento famiglie che fino ad oggi hanno contestato una tariffa illegittima. Ma ai cittadini il Comune e il Sindaco hanno deciso di chiudere la porta in faccia.
Nei giorni scorsi in molti avevamo letto dell’acqua tagliata ad un pensionato per una bolletta non pagata di settanta euro. E’ solo la punta dell’iceberg. Tanti cittadini in questi giorni ci stanno raccontando storie simili: macchine che arrivano sulle residenze, quasi di nascosto, operai che tagliano i tubi e fuggono, fogli che annunciano la sospensione dell’acqua senza indicare neanche il numero di utenza. E poi riallacci fatti solo dopo aver pagato tutto, senza accettare nessuna forma di rateizzazione.
Cari cittadini, questa è l’acqua privata, questa è la gestione che anche il nostro consiglio comunale ha approvato nel 2005, con il voto unanime, con le forze congiunte del Pd e del Pdl. Nessuna iniziativa concreta è stato presa per tutelare i cittadini di Velletri da una azienda che fa finanza e profitti su un bene essenziale. Il consiglio comunale, la giunta, nessuno ha chiesto, ad esempio, che l’acqua non venga staccata a chi ha un reddito basso, visto che la tariffa sociale non è stata mai applicata. Nessuno ha chiesto che venga garantita l’acqua ai disabili, a chi vive di pensione sociale, a chi ha un reddito ai limiti della povertà. Acea è una azienda privata e non guarderà in faccia nessuno. 

Il comitato acqua pubblica, con la firma di diversi cittadini, ha presentato nei giorni scorsi un esposto all’antitrust, alla commissione nazionale delle risorse idriche e al garante regionale, spiegando come la tariffa applicata a Velletri e nella provincia di Roma sia illegittima, perché non rispetta quanto previsto dal contratto e dalla legge. Chiediamo che Acea sospenda immediatamente i distacchi dell’acqua fino a quando non vi sarà una decisione terza sulle contestazioni e fino alla pronuncia definitiva delle autorità interpellate. Chiediamo, quindi, al consiglio comunale di Velletri di appoggiare la richiesta dei cittadini, invitando Acea a non proseguire nei distacchi dell’acqua.

E’ ora che la città reagisca. Per questo chiediamo a tutti di partecipare all’assemblea cittadina il prossimo cinque giugno. Discuteremo insieme quali iniziative preparare per difendere la nostra acqua da chi fa politica per interesse e dalle aziende private.



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Comitato Acqua Pubblica Velletri

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