lunedì 23 gennaio 2012


 L'ATO4 equiparava l'azienda sanitaria ad un'impresa: vertenza chiusa con una transazione

Nuove Acque deve restituire alla USL 8 più di un milione di euro

di Romano Salvi

Arezzo- Per sette anni, da quando il servizio idrico è gestito da Nuove Acque fino al 2006, gli ospedali della USL 8 hanno pagato l'acqua come fossero industrie. E ora Nuove Acque deve restituire all'azienda sanitaria 600mila euro oltre ad impegnarsi su lavori per più di 600mila euro. In realtà era l'ATO 4, la prima autorità di ambito istituita in Italia, ad equiparare la USL 8 a una utenza industriale: lo ha fatto con più delibere a partire dal 1999 fino al 2006. Quando il coordinatore delle ATO toscane, su invito dell'assessore regionale alla sanità, Enrico Rossi, omogeneizzò in tutta la regione le tariffe applicate agli ospedali e alle strutture sanitarie pubbliche. La USL 8 aveva sempre pagato le fatture, pur contestando l'applicazione della tariffa e sostenendo che avrebbe dovuto rientrare tra quelle previste per le utenze pubbliche. Fino al febbraio del 2008, quando l'USL ha deciso di citare davanti al tribunale di Arezzo sia l'ATO 4 che Nuove Acque, chiedendo la restituzione di poco meno di un milione e 700mila euro da parte del gestore del servizio. Le parti però non sono finite davanti al giudice e la vertenza si è chiusa con una transazione stragiudiziale quindici giorni fa da USL 8, ATO 4, e Nuove Acque. "Proprio il giorno prima - commenta il Comitato Acqua Pubblica - dell'assemblea dell'ATO, che ha preso atto della transazione. Ma ci voleva poco a capire l'assurdità di equiparare gli ospedali pubblici al pari di un'opificio industriale". La composizione della controversia prevede lavori, già eseguiti da Nuove Acque, al'ospedale San Donato per la regimazione delle acque meteoriche per un costo di 454mila euro, la realizzazione di due collettori fognari tra gli ospedali di Sansepolcro e di Bibbiena con i depuratori del Trebbio della Nave per un costo di 70mila euro ciascuno. E la restituzione da parte di Nuove Acque di 600mila euro da corrispondere all'USL 8 in quattro anni. Gli importi in quattro tranche da 150mila euro potranno essere corrisposti anche a compensazione delle somme che ogni anni la USL dovrà pagare a Nuove Acque. Da ora in poi, ovviamente, a tariffa agevolata, non come utenza industriale, ma di pubblico servizio. "Ma le 600mila euro devono saltare fuori dalla prossima revisione del piano di ambito. In altri termini o da nuovi aumenti delle tariffe o dalla riduzione degli investimenti. In ogni caso a pagare saranno ancora i cittadini. Mentre l'ATO non controlla e i comuni stanno a guardare".

Fonte Il Corriere di Arezzo del 6.05.2010

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venerdì, 07 maggio 2010; 20:01


Con questo slogan da settimane i settori indigeni ecuadoriani si stanno mobilitando per bloccare la cosidetta Ley de Agua proposta dal governo Correa.Lo avevano giá annunciato occupando una delle sessioni della Conferenza sui Cambiamenti Climatici di Cochabamba; "le comunitá indigene ecuadoriane si opporranno con ogni forza a questa riforma sulla gestione dell'acqua!".

INTERVISTA A MARLON SANTI realizzata a Cochabamba

Cosí, mentre si avvicinava il fatidico giorno del dibattito in parlamento sulla riforma dell'acqua, le popolazioni indigeno-campesine, perlopiu' della Sierra e dell'Amazzonia, si sono mobilitate da oltre una settimana, manifestando e bloccando per diversi giorni le principali vie dicomunicazione dell'Ecuador.
Nella provincia di Azuay, ad esempio,l'istituzione tramite la Ley de Agua della "Autoridad Única del Agua (AUA)" avrebbe direttamente colpito le Giunte indigene dell'Acqua che da decenni gestiscono il servizio idrico dal basso´attraverso sistemi comunitari. Tali comunità pertanto hannolanciato un levantamento che ha portato ad una grande mobilitazione coinvolgendo maestri e studenti nel blocco della famosa strada Panamericana. Esercito e polizia sono intervenuti attaccando duramente un corteo indigeno-campesino, composto anche da donne, bambini ed anziani.Moltissimi i feriti e 4 arresti di dirigenti delle Giunte dell'Acqua.
Ieri le loro istanze, accompagnate dai corpi di migliaia di indigeni, hanno invaso le strade di Quito per raggiungere il parlamento, mentre dentro si dibatteva affannosamente la spinosa "Ley de Agua".
Il presidente Correa insiste - la nazionalizzazione della risorsa idrica é una tappa necessaria della revolucion ciudadana - mentre la CONAIE richiama la base lanciando il levantamento di tutte le popolazioni indigene in difesa dell'acqua, della vita e dell'indipendenza alimentare.
La prima giornata di battaglia si é conclusa ieri con la sospensione dei lavori parlamentari, mentre fuori gli indigeni esercitavano pressione fino a bloccare l'entrata del Parlamento. Interviene la polizia con cariche e gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti; gli indigeni non si ritirano e si accampano nel Parco del Arbolito adiacente al parlamento, rilanciando la mobilitazione al parlamento per il giorno successivo.
Oggi la seconda battaglia. 
Mentre polizia ed esercito cercano di fermare la marcia degli indigeni chedalle campagne stanno cercando di raggiungere la capitale, viene ripreso a fatica e sotto assedio il dibattito in parlamento, per l'approvazione della riforma sull'acqua.
Dal parco del Arbolito si muove nella prima mattinata la marcia indigena. La polizia antimotines ha cercato di fermarli in ogni modo con cariche e lacrimogeni, ma i diversivi e la determinazione del corteo hanno spinto migliaia di donne ed uomini del colore della terra, alle ore 13, ad arrivare davanti al parlamento, blindato dalla polizia.
Mentre dentro si passava ai voti Ley de Agua, fuori, nonostante le barriere difensive e il dispiegamento paramilitare della revolucion ciudadana, gli indigeni, guidati dalle comunitá afroecuadoriane hanno cercato di sfondare l'entrata abbattendo le recinzioni difensive. Ci sonostati violenti scontri.
La polizia ha sparato sulla gente pallottole di gomma: due feriti gravi, di cui il dirigente di Machachi, Wilson Collaguazo, ferito gravemente alla testa.
La riforma della Ley de Agua è passata, ma la CONAIE, organizzazione che raggruppa tutte le nazionalità indigene ecuadoriane, afferma che non lasceranno la capitale fino a quando non saranno ascoltati.
Le partita é dunque ancora aperta, considerando che la riforma sull'acqua non è un semplice un processo di ri-pubblicizzazione, bensì il passaggio di consegne alla gestione monopolistica da parte di un'impresa statale, che pur sempre si muove con interessi di mercato ed all'interno dellostesso paradigma di sviluppo.
In Ecuador i conflitti intorno a questa vitale risorsa vedono oggi confrontarsi da una parte las Juntas de Regantes ed i sistemi comunitari per la gestione dell'acqua, dall'altra una mono-impresa nazionale, una sorta di multiutility che, con l'approvazione della legge, avrá monopolioassoluto della risorsa idrica.
La partita dell'acqua si gioca inoltre su più livelli e a piu' scale, centralizzando in un solo attore, quello statale, la gestione dell'acqua.Il governo Correa, coerentemente in linea con le politiche socio-ambientali dei Paesi dell'ALBA, guidati da Venezuela e Bolivia, sostiene e promuove politiche nazionali ed internazionali che si basano su modelli sostanzialmente di tipo estrattivo: dalle riserve energetiche alle risorse minerarie. Quando i paesi di tale area affrontano i temi sullo sviluppo sostenibile, come ad esempio le energie alternative, traducono tali approci in megaprogetti magari sponsorizzati da imprese idroelettricche affiliate a qualche governo amico.
Gli effetti sul territorio sono spesso gli stessi: grandi dighe, sgomberi forzosi di intere comunitá, degradazione di interi ecosistemi.Nazionalizzare per centralizzare, centralizzare per vendere il servizio idrico secondo gli interessi economici e geopolitici di chi governa.
La riforma de la Ley de Agua porterá benefici, ma sostanzialmente alle industrie per l'estrazione mineraria (che richiede l'uso di ingenti volumi di acqua), alle all'agro-industria, che per le mono-coltivazioni intesive a grande scala come la Palma Africana e Palma da cocco privano le comunitàdell'accesso all'acqua.
Sicuramente non va a beneficio delle comunitá locali, che in molti casi si sono autorganizzate per la gestione della risorsa idrica in Giunte dell'Acqua e Giunte dei Regantes (che garantivano l'accesso all'acqua, e gestivano la distribuzione per i sistemi agricolil ocali.Cosiccome è successo per le 48 comunità indigene evcampesine y e 4 centri parrocchiali nel sud di Cayambe, dove gli è già stato notificato il trasferimento al Consiglio Provinciale del Pichincha il sistema di irrigazione, che impone un cambio di gestione della risorsa idrica.
APPROFONDIMENTO IN INDYMEDIA ECUADOR

Da TeleSur

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venerdì, 07 maggio 2010; 19:58



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venerdì, 07 maggio 2010; 14:18


Quando il bene comune diventa una merce
di Carlo Petrini, Repubblica, 6 maggio 2010

Circa 250 mila cittadini hanno firmato per il referendum "L´acqua non si vende" che, senza scendere in tecnicismi, ha lo scopo di fermare la privatizzazione dell´acqua pubblica. Io sto con loro, firmo; non solo, ma sono a favore delle proposte che stanno arrivando da più parti per rendere effettiva la possibilità delle amministrazioni locali di dichiarare il servizio idrico «privo d´interesse economico», escludendolo così dal pacchetto di servizi da "liberalizzare" secondo il decreto Ronchi. Questo decreto, infatti, consente la privatizzazione degli acquedotti e dei vari servizi idrici collegati, previa gara d´appalto. Così facendo si consentirà a potenti gruppi di interesse economico di trattare l´acqua come fosse una qualunque merce, e quindi di farci pagare non tanto un servizio, come oggi accade in situazioni di gestione pubblica, ma il bene stesso, come se esso appartenesse a chi ce lo "vende". Il privato ha come fine quello di fare utili, le strade possono essere due: aumentare i prezzi o risparmiare sugli investimenti.

Sono contro la privatizzazione dell´acqua non perché sia contro la privatizzazione tout court, ma perché il modo di procedere di questo decreto sta consegnando le reti idriche nelle mani di capitalisti senza imporre loro nessuna regola che li obblighi a proteggere l´essenza di quello che è un bene comune. Questo è l´acqua: una cosa di tutti. Una cosa che tra l´altro comincia a scarseggiare a livello planetario, e quindi fa gola a livello economico. Non va semplicemente comprata e venduta però, va gestita affinché tutti ne abbiano, perché non ci siano sprechi, perché non venga inquinata, o usata per fini industriali e rimessa in circolo senza essere depurata, perché ce ne sia ancora per tanto tempo.

Vorrei però che fosse chiara una cosa: la ragione dell´avversione alla privatizzazione non risiede in una presa di posizione aprioristica contro il privato. In linea teorica nulla vieterebbe una corretta gestione dell´acqua da parte di un privato che se ne assumesse il servizio. Il problema è che una corretta gestione di un bene comune può essere realizzata solo da un attore fortemente radicato sul territorio, che si ponga come obiettivo lo sviluppo di quel territorio, la sua protezione e quella dei suoi abitanti e dei loro diritti. Ed è molto difficile che questo avvenga affidando la gestione dell´acqua anziché a enti locali a società di capitali o a banche.

L´acqua però è soltanto lo spunto per fare una riflessione più ampia. Perché qui stiamo perdendo di vista una cosa intoccabile: i beni comuni devono esulare dalle logiche di mercato. Il che non significa che ci sia una formula esatta per la loro gestione. Intendo dire che non è detto che debba per forza essere lo Stato a farsene carico, deve invece poter partire una reale condivisione: che sia proprietà collettiva a gestione privata, che sia tutto pubblico o che sia un mix delle due cose non ha importanza, perché ci sono formule alternative, vecchie e nuove. Stiamo vendendo o svendendo tutto, dando in gestione a chi ha come unico fine l´accaparramento, mentre certe cose non si dovrebbero toccare. Ricordo un grande del Barolo, l´indimenticato Bartolo Mascarello, che si scagliò contro la curia di Alba, rea secondo lui di aver venduto a dei privati delle vigne storiche, vigne che erano a "beneficio collettivo", tra i migliori cru di Langa.

È solo un esempio delle tante risorse comuni che la nostra Italia sta perdendo, e che avevano resistito anche alle spinte più privatistiche tipiche dell´Ottocento e Novecento. "Vicinie", "partecipanze", "comunaglie", "ademprivi", "società degli originari", demani comunali: boschi, terreni agricoli, spiagge e coste, pascoli, terreni a uso civico che per secoli erano a disposizione di tutti, di cui la comunità si faceva carico per mantenerli e sfruttarli con senso del limite e garanzie per il futuro. Proprietà collettive o insieme di risorse naturali gestite dal Comune, dalla parrocchia, da gruppi di famiglie, reti di vicinato e associazioni, secondo regole complesse che risalgono in molti casi anche al Medioevo. Sono quelli che inglese si chiamano "commons". Ci sono ancora esempi in Emilia, con le partecipanze agrarie che hanno origine ai tempi delle prime formazioni comunali e ancora oggi si trasmettono per discendenza diretta di padre in figlio: enti privati di diritto pubblico che hanno un regolamento per l´assegnazione (a rotazione) delle terre per il diritto d´uso e di coltivazione. Oppure pensiamo alle regole che le comunità si sono sempre date per la raccolta di erba, frutti di bosco, funghi e legname nei terreni comuni. Perché dobbiamo ridurre tutto a una dicotomia tra pubblico e privato, che è stucchevole quasi quanto quella tra destra e sinistra?

Guardo al passato e vedo soluzioni di grande modernità, che potrebbero aiutarci nella gestione dell´acqua, nel ripristino dei pascoli, nel mantenimento dei boschi e degli alpeggi (che stanno tra l´altro diventando sempre più terreno di sfruttamento a danno dei malgari, i quali ogni anno si vedono aumentare arbitrariamente gli affitti per basi d´asta dove spesso corrono da soli, perché gli unici rimasti a fare quel lavoro). Guardo al passato e vedo geniali soluzioni per lo sfruttamento locale delle biomasse (sfalci e legnami da buttare); luoghi dove costruire orti collettivi gestiti magari dai pensionati a beneficio della comunità; un paesaggio difeso e valorizzato; reti idriche locali, all´avanguardia ed efficienti, che garantiscono acqua a tutti, a prezzi tendenti allo zero, se non del tutto gratis.

Bisogna ridare dignità giuridica a queste antiche forme di gestione, perché realizzano ciò che né il pubblico puro, né il privato puro sono in grado di garantire: i beni cui tutti hanno diritto, le risorse delle nostre terre, mari e acque. Ci metto anche il cibo, perché la stessa dignità va riconosciuta a forme di partecipazione collettiva in tema di cibo: che cosa sono i gruppi d´acquisto solidali, gli orti collettivi urbani o il modello della community supported agriculture nato negli Stati Uniti, in cui si prevede l´acquisto anticipato di tutta la produzione di un agricoltore da parte di un gruppo di cittadini che poi si vedono recapitare a casa regolarmente, perfettamente maturi e in stagione i prodotti? Sono cose né pubbliche né private, né leghiste né comuniste, né passatiste né utopiche. Modelli che funzionano, collettivi e innovativi, al di là di schemi stantii che ormai hanno solo più questi scopi: fanno arricchire qualcuno, scarseggiare le risorse di tutti, perdere la nostra libertà, il senso di far parte di una comunità e di avere potere sulle nostre stesse vite, lasciandoci da soli, a pagare bollette sempre più salate.

(6 maggio 2010)


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giovedì, 06 maggio 2010; 18:08


La Commissione europea ha annunciato (ieri) la sua intenzione di procedere legalmente contro l'Italia e la Spagna per il mancato rispetto della normativa europea relativa al trattamento delle acque reflue all'interno delle città.

5 maggio 2010 h 08:53

Agence France-Presse

La Commissione europea ha annunciato mercoledì la sua intenzione di perseguire giuridicamente l'Italia e la Spagna per il loro mancato rispetto della legislazione europea sul trattamento delle acque reflue all'interno delle agglomerazioni urbane.

"Il mancato trattamento delle acque reflue rappresenta una seria minaccia in relazione al rischio di epidemie, oltre ad essere anche la principale causa di inquinamento delle falde freatiche", ha spiegato il commissario all'Ambiente Janez Potocnik.

"E' inaccettabile che più di otto anni dopo l'adozione di questa legislazione, l'Italia e la Spagna non abbiano fatto nulla per rispettarla. La Commissione non ha quindi altra scelta che quella di appellarsi alla Corte europea di giustizia", ha poi aggiunto il commissario.

Questa legislazione, adottata nel 1991 impone agli stati membri di dotare, entro il 32 dicembre 2000,  i comuni con più di 15 000 abitanti, di sistemi di trattamento delle acque reflue.

L'Italia e la Spagna hanno già ricevuto fino ad ora due messe in mora, nel 2004 e  nel 2008-09.
Ancora oggi ben 178 città italiane tra cui Capri, Ischia, Reggio Calabria, Palermo, San Remo e Vicenza, oltre a 38 città spagnole, tra cui La Curuna (Galizia) e Benicarlo (Valencia), non possiedono alcun sistema di trattamento delle acque reflue.

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giovedì, 06 maggio 2010; 09:39


Comune di Milano 
Consiglio comunale 

ORDINE DEL GIORNO 
Allegato alla Delibera 
n. 302 – Bilancio di Previsione 2010 

Il Consiglio Comunale di Milano 
- considerando l’acqua un bene pubblico, e il Servizio Idrico Integrato 
del Comune di Milano una importante e positiva risorsa dell’Amministrazione comunale da valorizzare e sviluppare nell’interesse della città; 

- preso atto di quanto previsto all’art. 15 del Decreto-
legge 25 settembre 2009 n.135 in materia di adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi locali di rilevanza economica, 

considerando che i livelli di efficienza, efficacia operativa ed economica, e sicurezza per il consumatore regolarmente garantiti dal Servizio Idrico Integrato nell’ambito della Città di Milano siano tali da giustificare il mantenimento della gestione di tale servizio in capo all’Amministrazione comunale di Milano 

IMPEGNA 

Il Sindaco e la Giunta Comunale a predisporre in tempo utile tutti gli atti e le procedure indispensabili a garantire, entro i termini previsti dal citato DL 135/2009, l’affidamento del servizio idrico secondo la 
modalità “in house” mantenendolo in capo al Servizio Idrico Integrato del Comune di Milano. 

Primo firmatario: 

Enrico FEDRIGHINI 
(Capogruppo Verdi) 

Milano, 19 aprile 2010 


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martedì, 04 maggio 2010; 10:21


Appello di Debora Serracchiani a firmare il referendum contro la privatizzazione del servizio idrico.


L’appello.
Qualche mese fa il Governo ha imposto l’approvazione di norme che spingono alla privatizzazione dell’acqua, col rischio che il servizio si concentri nelle mani di poche grandi aziende, spesso indifferenti all’interesse del territorio. Per opporsi allo scippo di un bene essenziale, il Partito democratico del Friuli Venezia Giulia si è subito mobilitato nelle sedi istituzionali, con le associazioni e tra i cittadini. Intendiamo proseguire questa battaglia anche sostenendo le iniziative promosse dal forum sull’acqua pubblica, che sabato scorso 24 aprile ha iniziato a raccogliere le firme a sostegno del referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Da oltre una settimana in tutta Italia e in regione moltissimi comitati si sono attivati per sensibilizzare i cittadini e raggiungere così le 500 mila firme necessarie. Nonostante la campagna di disinformazione messa in atto in questi mesi, su questa battaglia di civiltà il Pd si è speso molto, soprattutto grazie all’impegno sul campo di tanti amministratori locali. Io stessa mi sono rivolta ai dirigenti, agli eletti e ai militanti del Pd del Friuli Venezia Giulia per invitarli a sostenere le iniziative che vanno in questa direzione, e dunque dare un sostegno fattivo anche ai promotori del referendum nel difficile passaggio della raccolta delle firme, che richiede un impegno fatto di presidi ai banchetti, volontari e simpatizzanti per le azioni di sensibilizzazione, e soprattutto di autenticatori per le firme. Nei primi giorni, già sono migliaia le firme raccolte. Confido che, anche col contributo del Pd, il Friuli Venezia Giulia manderà a Roma un cospicuo numero di firme, all’altezza della sua tradizione di partecipazione civile.

Debora Serracchiani
segretaria regionale Pd Friuli Venezia Giulia Udine


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lunedì, 03 maggio 2010; 23:42


Siamo già a 250mila firme
di Romina Rosolia

Un'onda che cresce di giorno in giorno. Una settimana fa eravamo a 100 mila. Dopo il primo maggio siamo a metà dell'opera: duecentocinquantamila firme in otto giorni per la ripubblicizzazione dell'acqua. Un successo che travolge il Forum dei movimenti per l'acqua, che si erano posti come obiettivo di arrivare a 700 mila firme entro luglio. E la campagna sta producendo effetti anche sulla politica: ai banchetti delle firme ieri si sono visti numerosi dirigenti e amministratori locali del Pd, che a livello nazionale invece non appoggia apertamente il referendum. Mentre in Sicilia, nella finanziaria approvata il primo maggio con 53 voti favorevoli e 25 contrari (a scrutinio segreto), l'articolo 50 prevede il ritorno alla gestione pubblica dell’acqua. Come? Attraverso la rescissione dei contratti tra gli Ato idrici e i gestori privati nel caso in cui non siano stati fatti almeno il 40 per cento degli investimenti previsti. Cosa che sull'isola non è mai accaduta. Così l'acqua tornerà in mani pubbliche. In ballo c’è il blocco degli appalti affidati a privati per 6 miliardi di euro. Anche in questo caso la norma è stata proposta dal Pd locale.

Per sapere dove si può firmare guarda la mappa

www.ilmanifesto.it

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lunedì, 03 maggio 2010; 23:35



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lunedì, 03 maggio 2010; 19:25

Non una authority ma l’acqua pubblica
di Riccardo Realfonzo
Parte la raccolta di firme per il referendum a favore dell’acqua pubblica, indetto dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, e i fautori della privatizzazione moltiplicano le loro rassicurazioni. Costoro infatti precisano che in Italia non c’è un intento di privatizzare le reti, ma la “semplice” gestione dell’acqua, e rispolverano le solite vecchie tesi in materia dei poteri di controllo sui gestori privati di una nuova authority.

Ma procediamo con ordine. Con il decreto Ronchi approvato dal Parlamento il 18 novembre scorso risultano ulteriormente accentuate le privatizzazioni già promosse dal governo Berlusconi con il ben noto articolo 23 bis della legge 133 del 2008 (che spingeva verso la privatizzazione in materia di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica). Il decreto Ronchi impone la gara per l’affidamento dei servizi e stabilisce che le società a partecipazione pubblica quotate in borsa debbano portare la percentuale di proprietà pubblica al di sotto del 30%. Inoltre il decreto rende ancora più difficile il ricorso a quelle ambigue scappatoie - uno dei pasticci giuridici all’italiana - che sono le società per azioni di proprietà interamente pubblica. Infatti, gli affidamenti diretti (“in house”) vengono ora ammessi solo in casi di “situazioni eccezionali”, per il cui riconoscimento serve il parere preventivo dell’Antitrust.
Il decreto Ronchi interviene dunque in un ambito delicatissimo e cruciale per l’interesse pubblico nazionale. Per questa ragione sarebbe stato opportuno che per valutare la congruità del provvedimento si fosse aperta una discussione libera da pregiudiziali e fondata su elementi oggettivi. La letteratura scientifica sugli effetti delle privatizzazioni dei servizi pubblici, del resto, è ormai ampia. Autorevoli studi internazionali mostrano che storicamente le privatizzazioni non hanno assicurato una crescita della quantità e della qualità dei servizi offerti ai cittadini. I medesimi studi inoltre evidenziano che a seguito delle privatizzazioni i meccanismi perequativi si riducono e che le tariffe il più delle volte aumentano, dal momento che i ricavi aziendali devono assicurare non solo la copertura dei costi ma anche un margine di profitto. Ed ancora, diverse analisi rivelano che i meccanismi di liberalizzazione e apertura dei mercati risultano facilmente aggirabili, e che il servizio pubblico locale spesso finisce per assumere i tipici caratteri delle attività protette, che consentono ai capitali privati di godere di profitti elevati nella sostanziale assenza di pressioni competitive esterne. Insomma, il vecchio convincimento secondo cui la privatizzazione dei servizi determinerebbe aumenti dell’efficienza e del benessere collettivo, in realtà non trova riscontro nei dati[1].

In molti paesi di queste evidenze si tiene conto. Fin da prima della crisi - e dopo di essa in misura ancor più accentuata - assistiamo a veri e propri cambi di paradigma, che soprattutto in materia di servizi locali determinano un ampliamento della sfera pubblica. Basterebbe ricordare ciò che è accaduto a Parigi, dove le società private Suez e Veolia, che hanno gestito l’acqua nell’ultimo quarto di secolo, hanno lucrato ampi profitti reinvestendoli nei settori più disparati. I parigini, stanchi di assistere a un continuo peggioramento del servizio e ad una progressiva crescita delle tariffe, hanno chiesto a gran voce la rimunicipalizzazione dell’acqua e il sindaco Bertrand Delanoë ha vinto la campagna elettorale proponendo di tornare alla gestione pubblica dell’acqua.

Il governo italiano si muove dunque in controtendenza rispetto a quanto accade nei paesi più progrediti. Tra l’altro, appare significativa anche la scelta di tempo. Obbligare i comuni a cedere quote di proprietà delle società che erogano servizi pubblici in una fase di generale ribasso dei listini azionari può dar luogo a una vera e propria svendita a vantaggio del profitto di pochi. È preoccupante in questo senso che le reazioni al decreto Ronchi di molti esponenti imprenditoriali siano state improntate al grande apprezzamento per il rinnovato impegno liberista del governo. Soprattutto in una fase difficile e profondamente iniqua come questa, sarebbe stato bene che la parte più viva e lungimirante del mondo imprenditoriale avesse valutato il provvedimento dell’esecutivo con maggior consapevolezza e spirito critico.

A tutto ciò si aggiunge che l’operazione del governo ha anche un carattere fortemente sperequato sul piano territoriale, e ciò evidentemente riflette la “partita” politica - tutta settentrionale - che si è svolta intorno ad essa. Attraverso alcune “soglie”, di competenza dell’Antitrust, il decreto è infatti strutturato in modo tale da far sì che “le briciole” vengono lasciate alle aziende di proprietà pubblica del Nord, per i cui interessi territoriali si è evidentemente battuta la Lega, mentre “la polpa” dei servizi pubblici locali dei principali centri urbani va in appannaggio alle grandi società per azioni e alle multinazionali. In particolare, il Mezzogiorno sembra destinato a cedere pressoché interamente la gestione dei servizi pubblici locali, a cominciare proprio dall’acqua, a grandi imprese esterne al territorio.

Di fronte a questa azione privatizzatrice per troppo tempo le forze del centrosinistra sono apparse inerti, con il Partito Democratico che è risultato manifestamente portatore di interessi al suo interno divergenti, diviso come è tra fautori e critici delle privatizzazioni dei servizi pubblici locali. Ora il Partito Democratico annuncia una proposta di legge di riordino del settore che, riprendendo in buona misura le tesi avanzate dal sito lavoce.info[2], sembra ruotare intorno alla creazione di una nuova authority, che dovrebbe controllare una gestione sostanzialmente affidata ai privati. Vengono quindi rispolverate tesi già avanzate in occasione di passate operazioni di privatizzazione. E va da sé che, anche in questo caso, assisteremmo alla creazione di un altro organismo inutile, del tutto impotente rispetto alle multinazionali dell’acqua, al punto che gli esiti rischierebbero di non essere diversi da quelli del decreto Ronchi. Al tempo stesso, altrettanto discutibili appaiono le altre proposte presenti nel centrosinistra italiano che continuano ad avanzare soluzione ibride, che spingono nella direzione del ricorso a società miste pubblico-private o a formule giuridiche di diritto privato. È vero infatti che negli ultimi anni il ricorso alle spa di proprietà interamente pubblica è stato considerato spesso una soluzione utile per limitare i danni della privatizzatrice legislazione vigente (e su questo punto si è sviluppato un dibattito all’interno stesso dei movimenti per l’acqua pubblica[3]), ma questa soluzione non rappresenta certo l’ideale a cui tendere nel momento in cui si tratta di ridisegnare la normativa sui servizi pubblici locali.

Per tutte queste ragioni, i referendum proposti dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, con l’ampissimo tessuto sociale che lo sostiene, vanno nella direzione giusta. L’approvazione dei tre quesiti referendari, infatti, segnerebbe una straordinaria vittoria politica delle forze critiche verso le privatizzazioni e ci riconsegnerebbe una gestione dell’acqua finalmente affidata a un soggetto interamente pubblico.


[1] Si rinvia ad esempio agli studi sulle privatizzazioni britanniche, le più studiate. Tra gli altri i contributi di Massimo Florio hanno dimostrato che gli effetti positivi delle privatizzazioni sono stati sempre modesti o nulli per i consumatori e comunque largamente superati dagli effetti individuali e sociali negativi. A riguardo si rinvia al volume di Florio, The Great divestiture. Evaluating the welfare impact of British privatizations (MIT Press) 2004 e al contributo dello stesso autore nel volume a cura mia e di P. Leon dal titolo L’economia della precarietà (manifestolibri, 2008). Si veda inoltre il contributo di Bruno Bosco, “Privatization, reproduction and crisis: the case of utilities”, in corso di pubblicazione in E. Brancaccio e G. Fontana, The Global Economic Crisis. New Perspectives on the Critique of Economic Theory and Policy (Routledge).
[2] Il riferimento è ad esempio agli articoli di Carlo Scarpa del 18 novembre 2009 e di Antonio Massarutto del 10 dicembre 2009.
[3] In questi anni alcuni comitati hanno sostenuto la possibilità, a legislazione vigente, di sottrarre il servizio idrico all’applicazione dell’articolo 23-bis e della normativa successiva (mediante una delibera del Comune che dichiara il servizio “privo di rilevanza economica”), e quindi l’attribuzione del servizio idrico a un’azienda speciale. Altri hanno ritenuto che a legislazione vigente non sia  praticabile la soluzione dell’azienda speciale, e hanno quindi in tal senso auspicato un mutamento del quadro legislativo nazionale. A riguardo rinvio all’articolo di Carlo Iannello in questa rivista:

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