lunedì 23 gennaio 2012



Acqua, un milione di firme
di Angela Mauro

Militanti di sinistra e leghisti. Cattolici e anarchici. Tutti insieme, hanno raccolto una quantità impressionante di adesioni al referendum contro la privatizzazione.
E la battaglia continua.

Sindaco per un giorno, quello del suo centesimo compleanno, Vittorio Cloè dà l'esempio: una bella firma per il referendum per l'acqua pubblica a Vico nel Lazio (Frosinone). Non è solo. Nel giro di due mesi di banchetti e iniziative, firmano in più di un milione in tutt'Italia, ben distribuiti per regione. Senza partiti o megafoni tra i media, sito Internet, quello sì, aggiornatissimo (acquabenecomune. org), padre Alex Zanotelli in tour a predicare "no ai profitti sull'acqua", un pullulare di referenti locali che a livello nazionale non sono nessuno, ma sulla materia la sanno lunga come nonno Vittorio. 

La macchina referendaria per difendere l'acqua dai privati si muove così. Silenziosa eppure efficace. 

Centro sociale Rialto a Roma, sede nazionale del Forum italiano movimenti per l'acqua: il traguardo è storico. In poco tempo, hanno mietuto firme più del referendum sull'aborto, scala mobile o caccia. Tutto per chiedere una consultazione popolare che cancelli le leggi italiane sulla privatizzazione del servizio idrico: la Ronchi dello scorso autunno, ma anche le norme precedenti in materia. Per l'acqua pubblica nella "civile" Italia, così com'è avvenuto nei paesi più poveri del mondo, è in corso una specie di rivoluzione. E il risultato è una specie di miracolo.

"Dalle parrocchie ai centri sociali". Marco Bersani, 51 anni, responsabile Acqua e beni comuni di Attac, una delle tante realtà del Forum per l'acqua, sintetizza così la formula vincente da difendere da ogni agguato. E ce ne sono. 

"Nel vuoto delle ideologie post '900, il tema acqua pubblica ricostruisce un pensiero politico capace di rivolgersi a tutti", è convinto Emilio Molinari, europarlamentare di Democrazia proletaria negli anni '80, uomo di lotte per l'acqua nei '90, da Porto Alegre a Mumbai, nei Forum Sociali noglobal, modello che un po' può descrivere l'attuale battaglia italiana sulle risorse idriche. Solo un po', però. Perché lo sforzo referendario coinvolge a raggio più largo: cattolici e militanti di sinistra, leghisti, associazioni di destra e gente nuova all'impegno politico. I partiti dovranno farci i conti, ragionano al comitato, sapendo che qualcuno li ha già dovuti fare a sue spese. E citano Di Pietro. Con lui è stata rottura, quasi subito. "Non ha accettato di stare tra i sostenitori della campagna con la sinistra extraparlamentare", dice Marco Bersani, "voleva un posto tra i promotori, dove noi non abbiamo voluto i partiti. Perciò si fa la sua raccolta firme sull'acqua, senza chiedere che sia davvero patrimonio di tutti...". 

Ma il Forum ci tiene alla sua autonomia. "Serve a coinvolgere tutti", continua Bersani, "invece Di Pietro col suo slogan "Fermiamolo", rivolto a Berlusconi, porta la battaglia al solito scontro tra schieramenti: controproducente". E se il leader dell'Idv ha deluso, perché, come dice Roberto Gelli, "grillino" di Torino, "si rischia pure la confusione di due referendum", col Pd la storia non è nemmeno iniziata. 

Il segretario Pier Luigi Bersani preferisce la "via dell'iniziativa parlamentare" al referendum. Nessuna adesione ufficiale dunque, con tanti "se". "Avessero almeno ripreso la nostra proposta di legge del 2007, governo Prodi: giace in Parlamento, pur sostenuta da oltre 400 mila firme", spiegano al comitato. Niente. Ma la "storia non iniziata" ha trovato da sola una sua strada. 

Al Forum snocciolano l'elenco delle federazioni del Pd che, a dispetto delle direttive di partito, hanno aderito all'iniziativa. Vai a controllare e ci trovi: Veneto, Umbria, Pavia, Monza, Brianza, Vercelli e via elencando. E poi i Giovani democratici, oltre a vari esponenti nazionali che alla fine hanno firmato (mentre altri difendono le privatizzazioni). Giovanni Cocciro, assessore ai Beni Comuni di Cologno Monzese, fede Pd, anima per l'acqua pubblica, si arrabbia per "quei sindaci del mio partito che se ne stanno zitti". Tanto più che, per restare al Nord, la Lega ha già offerto praterie di firme alla campagna referendaria. Lontano da Roma e col peso della legge Ronchi sulla coscienza, i padani sono in prima linea. Non se ne sorprende Giulio Di Capitani, assessore leghista all'Agricoltura in giunta Formigoni, un passato di impegno per l'acqua pubblica: "L'acqua va estromessa dalle risorse utili a trarre profitto. Se la battaglia referendaria non sarà strumentalizzata dalla politica, tutti dovrebbero partecipare, a partire dalla Lega".
Se ne vedranno delle belle. Al momento, posto che vai, vertenza che trovi. Perché il Forum per l'acqua è attivo da cinque anni di battaglie locali. Da Arezzo, uno dei primi comuni (di centrosinistra) ad assaggiare il prezzo salato dell'acqua privata. Fino a Palermo, dove il governatore Raffaele Lombardo ha inserito in Finanziaria un pretesto per assicurarsi il sostegno del Pd: una norma per l'acqua pubblica, appunto. 

"Inutile orpello", commenta Giuseppe Sunseri, responsabile raccolta firme in Sicilia. 

C'è il caso di Nola, città di Giordano Bruno, monarchica e poi democristiana, schierata contro divorzio e aborto, ma l'acqua no. "Non si tocca", dice Restituta De Lucia, 70enne, di Azione Cattolica, segretaria della Pastorale sociale del Lavoro in città e anche delegata alla Salvaguardia del creato. Contro la Spa Gori, che gestisce il servizio idrico a Nola con rincari "da 0,40 a 1,29 euro al metro cubo", la battaglia è radicale. "Sciopero delle bollette dal 2004", racconta Restituta a nome dei "6 mila utenti che, su 11 mila abitanti, non pagano. Pure il vescovo è con noi". 
A Nola si firma nelle parrocchie e si lavora fianco a fianco "con l'estrema sinistra e l'associazione dei Borboni". 

Da Cosenza, Alfonso Senatore dice che "persino gli autisti dei bus locali hanno fatto le staffette per portare i moduli referendari da Trebisacce a Oriolo", dal mare alla montagna. Il comitato? Anche qui, fritto misto: "Io vengo dall'Azione cattolica, ma c'è chi viene da Lotta continua, chi dall'anarchia". Al Nord, Vicenza, la battaglia referendaria è fatta da "No dal Molin" e denuncia l'inquinamento della falda acquifera vicina al cantiere della nuova base Usa. "Riserva potabile da cui si disseta mezzo Veneto", spiega il referente locale Filippo Canova, "si scrive acqua, si legge democrazia", ripetono al Forum, certi di aver salvato dalle ceneri della storia lo strumento referendum. "Lo difenderemo, contro ogni tentativo parlamentare di vanificarlo", promette Molinari.


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claudiomeloni; ; commenti ?


sabato, 10 luglio 2010; 11:57


Camminerò sull'acqua
di Vandana Shiva
Non è  con le guerre che si esporta la pace. Ma con la democrazia della Terra. Per sconfiggere fame e sete. Parola di un'economista.

Ho fatto un sogno. Un sogno in cui la società umana si evolveva dall'avidità e dal consumismo a una democrazia della Terra basata sulla conservazione. La globalizzazione sta spingendo il mondo verso un apartheid del "vivere" e non "vivere", giacchè gli elementi primari della vita, la biodiversità, il cibo e l'acqua, vengono mercificati e privatizzati e le condizioni di base per la vita della gente vengono distrutte. 

Nella democrazia della Terra, la biodiversità e l'acqua saranno recuperate come beni comuni. Non ci saranno brevetti sulla vita e nessuna privatizzazione dell'acqua. Il diritto al cibo e all'acqua sarà parte dei diritti umani universali fondamentali di tutti. Nella democrazia della Terra, la diversità sarà la condizione per la pace e la cooperazione. Nella democrazia della Terra, la nostra identità fondamentale sarà quella di cittadini della Terra, parte della famiglia allargata di tutte le specie e di tutti gli esseri attualmente divisi da conflitti e guerre basati sulla razza e la religione. La conservazione, e non il consumismo, sarà il segno del progresso umano. Il mondo e la visione del mondo delineati dalla globalizzazione corporativa sono in declino e si reggono solo tramite la forza bruta. Un altro mondo non è solo possibile: sta avvenendo. E' la costruzione della democrazia della Terra.

La globalizzazione corporativa sta trasformando la Terra in un supermercato, e le risorse della Terra in merci controllate da cinque giganti della genetica, cinque giganti del grano e cinque giganti dell'acqua. Nella democrazia della Terra, i diritti alle risorse vitali naturali sono diritti naturali che discendono dal nostro essere membri della comunità della Terra. Tutti gli umani hanno gli stessi diritti al cibo e all'acqua. Il mercato globale ha accresciuto la ricchezza dei ricchi e la povertà dei poveri, ma ha disumanizzato tutti: i poveri perchè spinti a livelli di esistenza subumana, i ricchi nel processo di accumulazione. Per riscattare la nostra comune umanità dobbiamo riconoscere che la nostra specie è all'interno della comunità della Terra. Il progetto di eguaglianza che è crollato con il Muro di Berlino, descritto come la fine della storia da Francis Fukuyama, era centrato sullo Stato e basato sulle uniformità. L'eguaglianza nella democrazia della Terra è radicata nella diversità e nell'auto-organizzazione decentrata che va dall'individuo alla comunità, dal paese al pianeta.
Questa ricerca di un'eguaglianza basata sull'ecologia sta portando a cambiamenti radicali nella produzione e nel consumo. La globalizzazione corporativa estingue i diritti fondamentali alla vita, ai mezzi di sostentamento e agli stili culturali diversi. Gli umani, come agenti creativi che fanno e producono beni e servizi e attraverso quella produzione riproducono la vita, non trovano posto nel supermarket globale nel quale possiamo essere solo consumatori e non produttori. La globalizzazione corporativa è la fine della riproduzione e della produzione come elementi essenziali degli esseri della nostra specie. La democrazia della Terra è invece il modo per reclamare la nostra creatività e le nostre capacità produttive. 

Nella sfera della biodiversità la fine della creatività sta nei brevetti per la vita che portano alla pirateria e al brevettare il sapere indigeno, e da qui alla creazione di un monopolio di diritti nelle mani delle corporazioni occidentali che possono essere usati per impedire alle comunità indigene di accrescere la loro sapienza per produrre cibo e prevenzione sanitaria. I brevetti sui semi rendono illegale il conservare e riprodurre semi, spezzando così il ciclo della rigenerazione sia del raccolto che della conoscenza. Nella sfera alimentare, la fine della creatività sta nella globalizzazione e industrializzazione dei sistemi alimentari, che eliminano i piccoli contadini dalla catena alimentare, distruggono le economie alimentari locali e le culture, lasciando tutti ignoranti sulla provenienza del cibo, su come sia stato prodotto e su quello che contiene. Nei sistemi globalizzati non c'è posto per le persone che coltivano e producono cibo. Questa è una ricetta per rendere superfluo il 75 per cento dell'umanità legato alla produzione alimentare. La democrazia della Terra centra la conoscenza e la produzione nei processi viventi del suolo, dell'acqua e della biodiversità.
E attraverso questo crea delle economie viventi che conservano la vita, creano condizioni di vita e provvedono ai bisogni di base. Il sistema economico dominante è diventato un'economia di morte. Uccide le fondamenta della nostra sopravvivenza ecologica. Uccide la possibilitàdi condizioni di vita sicure e dotate di senso per tutti. 

Al posto delle economie morte inglobate nelle regole dell'accordo sull'agricoltura del Wto, abbiamo bisogno di un'economia vivente alimentare e agricola. Al posto delle economie di morte della privatizzazione dell'acqua, abbiamo bisogno di un'economia vivente dell'acqua. Le culture vengono formate dalla terra. La diversità culturale si è co-evoluta con la biodiversità biologica. Le culture hanno delineato identità positive; un senso dell'auto-collocarsi su un senso del luogo, negli ecosistemi e nelle comunità. 

Mentre vengono spiazzate le identità tradizionali e crescono le insicurezze, l'identità viene delineata dall'insicurezza: la cultura viene vissuta attraverso la negazione dell'"altro", poiché la cultura come espressione di sé viene distrutta dalla globalizzazione corporativa. In queste culture negative il terrorismo, l'estremismo e la xenofobia prendono forme virulente. L'umanità si definisce attraverso la sua disumanità. I circoli viziosi della violenza e dell'esclusione, culturale, politica ed economica, diventano dominanti. 

L'imperativo della sopravvivenza richiede una transizione dalle economie negative di morte e distruzione alle economie vitali che sostengono la vita sulla terra e le nostre vite, dalle politiche negative della corruzione e del fascismo alle democrazie viventi che includono la responsabilità e la partecipazione di tutte le vite, dalle culture negative che stanno portando a un comune annichilimento alle culture viventi e positive basate sull'interessamento, la compassione e la conservazione.

Ogni democrazia permette l'emergere di economie viventi, di democrazie e di culture viventi. L'economia dell'esclusione che deriva dalla globalizzazione corporativa sta creando culture di paura e insicurezza, violenza, terrorismo e pulizia etnica. Sta portando a culture di morte e sterminio. Le guerre in Afghanistan e in Iraq si sono basate sulla cultura della paura in cui la condizione per la sopravvivenza dell'uno è l'annientamento dell'altro. Ma non si tratta solo di una superpotenza che cerca sicurezza attraverso lo sterminio di altri popoli. 

Nelle società rese insicure, la pulizia etnica può cominciare in una quantità infinita di modi. L'offerta per dei lavori in India ha scatenato un enorme conflitto etnico nell'India dell'est, portando al massacro dei Binari ad Assam. Quando le condizioni di vita economiche e la sicurezza nella società vengono essiccate, la più piccola scintilla può generare etnocidio e genocidio. E quando i valori cambiano grazie alla cultura del consumatore creata dalla globalizzazione economica, anche il valore della vita viene imposto dal mercato. La democrazia della Terra fornisce il terreno per ribaltare questa tendenza a considerare inutili le persone in base alla religione, al sesso o all'etnia. 

La democrazia della Terra aiuta a nutrire le culture viventi: quelle culture che si innalzano dalla terra, nel contempo diverse nelle loro radici locali ma legate dalla consapevolezza planetaria che siamo tutti membri della famiglia della Terra, che dividiamo una casa e che creiamo le condizioni per l'esistenza gli uni degli altri. La globalizzazione corporativa ha ucciso la democrazia. La democrazia rappresentativa intesa come "dal popolo per il popolo" è stata trasformata in "dalle corporazioni, delle corporazioni, per le corporazioni". Con la democrazia elettorale sequestrata dal potere corporativo, si è anche fomentata la crescita del fondamentalismo religioso come paesaggio politico. La democrazia vivente reinventa la democrazia, rendendola più estesa e più profonda.

Approfondire la democrazia comporta il portare la politica a ogni persona nella quotidianità, senza restringerla alle elezioni ogni quattro o cinque anni. La democrazia della Terra non è morta, è viva. Sotto la globalizzazione, la democrazia, anche quella superficiale di tipo rappresentativo, sta morendo. Ovunque i governi tradiscono i mandati che li hanno portati al potere. Stanno centralizzando l'autorità e il potere, sovvertendo le strutture democratiche delle costituzioni e promulgando ordinanze che soffocano le libertà civili. In tutto il mondo la tragedia dell'11 settembre è diventata una comoda scusa per legiferare contro il popolo.
Ovunque i politici stanno cambiando i programmi in direzione xenofoba e fondamentalista per ottenere voti in un momento in cui i programmi economici non sono più stabiliti a livello nazionale, ma dalla Banca Mondiale, dal Fmi, dal Wto e dalle corporazioni globali. Il movimento per la democrazia della Terra riguarda la democrazia viva e non quella morta. La democrazia è morta quando i governi sono ridotti a strumenti anti-democratici e inaffidabili di regolamenti corporativi sotto l'egida della globalizzazione corporativa. La democrazia corporativa è centrata sui profitti corporativi. La democrazia della Terra è basata sul mantenere sulla Terra la vita e la libertà per tutte le persone e le specie. La globalizzazione corporativa è basata sul privilegiare la logica della competizione. 

La democrazia della Terra è basata sulla cooperazione. La globalizzazione corporativa opera per creare regole per i mercati globali, nazionali e locali che privilegiano le corporazioni globali e minacciano le specie diverse, la qualità della vita dei poveri e dei più piccoli, i produttori e le attività locali. La democrazia della Terra opera secondo le leggi ecologiche della natura, e limita l'attività commerciale per prevenire danni ad altre specie o persone.

La globalizzazione corporativa crea povertà e minaccia la pace. La democrazia della Terra crea una prosperità inclusiva attraverso la quale crea la pace. La globalizzazione corporativa distrugge le diversità biologiche e culturali. La democrazia della Terra è la protezione della diversità nella natura e nella società. La globalizzazione corporativa viene attuata da un potere istruttivo centralizzante. Il separatismo è parte essenziale della centralizzazione coercitiva. 

La democrazia della Terra viene attuata attraverso il potere decentralizzato e la coesistenza pacifica, con i poteri più elevati ai livelli più bassi, e il potere che viene delegato verso l'alto sulla base delle riserve. La globalizzazione corporativa globalizza l'avidità e il consumismo. La democrazia della Terra globalizza la compassione, l'interessamento e la condivisione. Fisica quantistica ed economista, l'indiana Vandana Shiva è la teorica più nota dell'ecologia sociale.

Testo raccolto da Cristiana Ceci, traduzione di Alessandra Pugliese

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claudiomeloni; ; commenti ?


sabato, 10 luglio 2010; 07:00


Chiamparino, non privatizzare i servizi pubblici
di Ugo Mattei

Come ben noto è in corso una campagna referendaria volta alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato su tutto il territorio nazionale. Tale campagna chiama in modo chiaro e non ambiguo l'elettorato a pronunciarsi sull'inadeguatezza della società per azioni (anche a capitale interamente pubblico) e della logica privatistica ed aziendalistica che essa sottende nella gestione del servizio idrico integrato. Si chiede fra l' altro l'abrogazione completa dell'art 15 del cosiddetto decreto Ronchi. Il servizio idrico integrato è una specie del più ampio genere servizio pubblico, ed il decreto Ronchi infatti non riguarda il solo servizio idrico ma tutti i servizi pubblici di interesse economico. Ne segue che allo stato attuale si trova sotto esame referendario una parte cospicua della normativa ai sensi della quale sono messi a gara i servizi pubblici. I dati raccolti in tre anni di lavoro presso l'Accademia Nazionale dei Lincei e pubblicati nel volume "Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica" (a cura di Mattei-Reviglio e Rodotà per il Mulino, 2007) mostrano come quasi vent'anni di privatizzazioni in Italia abbiano comportato dei fenomeni generali e costanti: aumento dei prezzi al consumo; declino negli investimenti; aumento del budget per la pubblicità; aumento degli stipendi dei managers; aumento delle spese per le parcelle di servizi professionali quali studi legali e consulenti vari.
La visione politica del movimento referendario (che ha raccolto ormai oltre un milione di firme) è quella di far rivivere in Italia le condizioni per una piena attuazione dell'art. 43 della Costituzione, quello che governa la riserva e il trasferimento di attività naturalmente monopolistiche (come il servizio idrico) o di primario interesse generale (e qui potrebbero aprirsi scenari entusiasmanti, dalla riconversione di Termini Imerese e Pomigliano ai trasporti urbani) a «comunità di utenti e di lavoratori». 
Purtroppo la lettura della delibera comunale di Torino che vuole «mettere a gara» l'intero settore del trasporto pubblico urbano (Gtt) non senza avervi prima scorporato, con un' operazione di puro diritto societario, la metropolitana (servizio per sua natura in perdita e quindi assai meno appetibile per il privato) mostra l'arretratezza che ancora domina i principali partiti del centrosinistra. La logica che informa la delibera è infatti quella puramente aziendalistica (e privatistica) nel merito, nel metodo e (ancor più fastidiosamente) nella retorica. La clamorosa superficialità giuridico-politica dell'operazione è denunciata anche dall'Agenzia per i servizi pubblici locali del Comune di Torino (un organismo indipendente di consulenza giuridico-amministrativa) nel suo parere a proposito del proposto «contratto di servizio per l' erogazione dei servizi relativi alla mobilità urbana», redatto in esecuzione della delibera comunale. Il contratto infatti sembra un caso di scuola dell'incapacità per il «principale» (il Comune) di governare le «asimmetrie informative» che favoriranno l'«agente» (la società di diritto privato che gestirà la mobilità). Purtroppo i problemi tecnico-giuridici segnalati dall'Agenzia non sono rimediabili con meri cambi del testo contrattuale per il semplice fatto che le contingenze future in una materia tanto complessa quanto la mobilità urbana non sono prevedibili e governabili ex ante. Questo limite strutturale del diritto dei contratti a governare il rapporto fra principale ed agente è ormai arcinoto nella letteratura giuridica ed economica (che infatti sempre più spesso propone il trust). 
Purtroppo nel nostro sistema istituzionale "tornare indietro" dopo una privatizzazione fallimentare è estremamente difficile. Infatti le garanzie contro l'espropriazione per pubblica utilità tutelano il privato contro il ritorno al pubblico. In sostanza a Torino un'amministrazione comunale in scadenza muove passi irreversibili verso la privatizzazione di un servizio pubblico essenziale quale il trasporto locale (che andrebbe governato con la stella polare dell'ecologismo e non certo dell'aziendalismo) proprio mentre è in corso un processo referendario volto a cancellare il presupposto fondamentale (legge Ronchi) che legittima quest'azione. 
Mi pare ci sia più di una ragione giuridica, politica e di opportunità perché Chiamparino rinunci al suo proposito e perché, più in generale, la cittadinanza si attivi per impedire questi colpi di coda del grande saccheggio del pubblico a favore del privato: a Torino come altrove i sostenitori politici dell'aziendalismo stiano disperatamente tentando di battere sul tempo Corte Costituzionale e referendum.

www.ilmanifesto.it




venerdì, 09 luglio 2010; 06:20

La battaglia delle società per il controllo dell'acqua
Le multiutility italiane e straniere si preparano alle gare Territorio lombardo verso la spartizione tra i grandi operatori
MILANO 
Sara Monaci 
Che il regolamento attuativo per la liberalizzazione dell'acqua arrivi entro fine anno non è affatto scontato. Ma intanto alcune (grandi) società - italiane e non - stanno già scaldando i motori per accaparrarsi i territori più interessanti della Lombardia. Tanto che, ad oggi, è già possibile individuare i movimenti e le possibili suddivisioni che nei prossimi mesi potrebbero venirsi a creare nella regione.
La palla passerà molto probabilmente alle province: una volta abolite le Autorità territoriali d'ambito (direzione che impone la normativa nazionale), le competenze, almeno in parte, dovrebbero andare a loro, dato che l'idea di dare vita a un Ato unico a livello regionale - tra le ipotesi allo studio del neo assessore all'Ambiente Marcello Raimondi - sembra di difficile realizzazione.
Il modello, ancora allo studio del Pirellone, prevederà probabilmente una mediazione tra regione, comuni e province, dove alla regione potrebbe spettare il potere di controllo e programmazione, ai comuni il possesso della società patrimoniale (si veda articolo in basso)e alle province l'onere di bandire le gare per individuare il gestore del servizio idrico oppure, in alternativa, per individuare il socio privato che entrerà all'interno dell'azionariato del gestore pubblico con almeno il 40 per cento.
Ecco cosa potrebbe presto accadere in Lombardia. Lo scacchiere sembra già definito, come spiegano gli esperti del settore vicini al ministero dell'Ambiente.
Prima di tutto le partite più interessanti per i gestori: Milano città e Milano provincia, insieme alla più piccola Monza, la provincia di Bergamo e quella di Brescia.
Questi territori sono infatti molto popolosi ma non molto estesi e, pertanto, piuttosto remunerativi ma poco costosi. A presentarsi a una possibile gara, in queste aree, dovrebbero essere dunque diversi operatori. Nella zona di Milano i candidati potenziali sono le tre grandi società italiane, Hera, Acea e Iren (nata dalla fusione tra Iride ed Enìa), più gli stranieri che già operano nel paese, cioè le francesi Gdf Suez e Veolia, l'inglese Severn Trent e le spagnole Aqualia e Acciona.
Stesse offerte dovrebbero arrivare per Monza, nella provincia di Milano, nel bergamasco e nel bresciano, proprio perché territori con caratteristiche simili dal punto di vista del servizio idrico. Certo, è difficile pensare che l'ingresso di alcuni operatori non troverà nessuna resistenza politica: è praticamente ovvio che la Lega si opporrà, per quanto possibile, all'arrivo di società non lombarde, prima fra tutte la romana Acea (controllata dal Comune di Roma e partecipata da Caltagirone).
Il discorso cambia in altre 5 zone, interessanti, sì, ma non per tutti. Le province di Cremona, Mantova, Varese, Como e Pavia dovrebbero trovare diversi possibili "acquirenti" che, sostanzialmente, intendono spartirsi il territorio. I movimenti previsti in queste aree, in base ai riscontri attuali, dovrebbero essere tutti italiani.
Acea sembra interessata a Cremona, dove, in base a quanto risulta al Sole 24 Ore Lombardia, ci sarebbero già stati i primi incontri tra società e gestori locali. La multiutility romana parrebbe espandersi anche a Pavia, dove già opera in piccole attività attraverso accordi con le municipalizzate locali, così come la genovese Iride.
Intanto la multiutility bresciano-milanese A2a, che non sembra troppo intenzionata ad adeguarsi al decreto Ronchi per inseguire il business minoritario dell'acqua, potrebbe tuttavia contemplare la possibilità di inserirsi a Como e a Varese attraverso la partecipata Acsm. Mantova infine, per motivi di contiguità territoriale e di facili economie di scala, rientrerebbe tra gli interessi di Hera, leader in Emilia Romagna.
Gare probabilmente deserte, invece, a Sondrio, Lecco e Lodi, le cui caratteristiche sono all'opposto di quelle di Milano. Soprattutto a Sondrio, il territorio è vasto ma la densità scarsa, ed è quindi poco appetibile per le grandi società pronte a spartirsi la Lombardia.

www.sole24ore.com

claudiomeloni; ; commenti ?


giovedì, 08 luglio 2010; 00:05


Il Trentino laboratorio per la gestione del servizio idrico attraverso le Aziende Speciali.
Il Trentino laboratorio per la gestione del servizio idrico attraverso le Aziende Speciali.

In Trentino la situazione odierna nella gestione dei servizi idrici, specie per quanto riguarda la possibilità che le comunità locali possano decidere sulla gestione dell’acqua e il suo controllo collettivo, è certamente particolare: sono ben 198 i comuni che ancora gestiscono il servizio idrico direttamente in economia, solo 25 invece i comuni dove la gestione è affidata a SpA pubbliche o miste pubbliche–private (dati 2009); la più importante e conosciuta tra queste ultime è la Multiutility Dolomiti Energia SpA che è presente in 18 tra i più popolati comuni trentini (Trento e Rovereto in primis) e che, oltre ad avere tra le fila degli azionisti A2A (quella dell’inceneritore di Brescia) e ISA (la Finanziara della Curia trentina), è prossima ad entrare in borsa.

Un aspetto interessante, che potrebbe caratterizzare il Trentino come un anticipatore degli effetti positivi delle vertenze territoriali e della vittoria referendaria, è la possibilità che fin da subito nella Provincia Autonoma di Trento, per la gestione dei servizi idrici, si possa dare vita a delle “Aziende Speciali”. Solo qui e in Alto Adige-Sudtirolo, una legge regionale del 1993 consente ad esse ancora di affidare servizi pubblici locali, contrariamente al resto del paese, dove le Aziende Speciali sono state eliminate già con la legge finanziaria 2002 dal novero delle forme gestionali possibili per questi servizi.

L’Azienda Speciale è un soggetto pubblico, un ente strumentale legato all’ente territoriale di riferimento cui spetta il potere di direttiva e di vigilanza (indicazione di obiettivi, approvazione dei programmi, nomina degli organi, approvazione delle tariffe). L’Azienda Speciale è dotata di propria personalità giuridica e di autonomia imprenditoriale limitata allo scopo istituzionale prefissato, è obbligata alla ricerca dell’equilibrio tra costi e ricavi (anche per la copertura di investimenti), ma esclusa dalla ricerca di profitto liberamente utilizzabile come nel caso delle società commerciali.

In altre parole l’Azienda Speciale - se vista in una forma costituente, non statica, ma generata dalla lotta – può essere considerata un’entità per la “pratica del comune” e perciò è molto diversa dalle società di capitali. Queste, anche se di proprietà al 100% degli enti locali, sono soggetti formalmente privati, operano secondo le regole del diritto societario, hanno l’obbligo di ricercare profitti di mercato, non ammettono controlli politici ed amministrativi sul proprio operato, fanno partecipare i rappresentanti degli enti pubblici alla vita societaria solo attraverso le inefficaci presenze nei consigli di amministrazione.

La combinazione dei tre quesiti referendari proposti dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua non punta soltanto ad annullare gli effetti dell’accelerazione verso la privatizzazione del servizio idrico (insieme a molti altri servizi pubblici locali) provocati dalle più recenti norme statali (articolo 23-bis del decreto-legge n. 112/2008 modificato dall’articolo 15 del decreto-legge n. 135/2009), ma punta anche a creare condizioni che - in caso di successo dei referendum - aprirebbero immediate possibilità di ripubblicizzazione reale del servizio.

Il secondo e il terzo quesito, infatti, hanno lo scopo di: 
a) eliminare il residuo collegamento che, anche dopo l’abrogazione delle ultime norme statali di privatizzazione selvaggia del 2008/2009 (conosciute come articolo 23-bis), resterebbe in piedi per il solo servizio idrico con forme di gestione privatistica approvate nel 2000; 
b) abrogare la norma per cui al gestore del servizio idrico spetta una remunerazione del capitale investito e quindi un profitto garantito con caricamento sulla tariffa (la percentuale di remunerazione è stata individuata nel 7% già in un decreto ministeriale del 1996).

Queste abrogazioni avrebbero l’effetto di collocare il servizio idrico al di fuori del mercato escludendolo dal gruppo dei servizi pubblici considerati forzosamente “a rilevanza economica” e - in attesa di una nuova legge quadro statale coerente con l’esito dei referendum - consentirebbero di individuare l’unica forma possibile per la sua gestione nell’affidamento ad una Azienda Speciale, anche consortile, applicando l’articolo 114 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali del 2000.
Con il meccanismo messo in piedi dalla manovra referendaria in tutta Italia le Aziende Speciali potrebbero essere a pieno titolo rivitalizzate a fine 2011 come soggetti gestori di un servizio idrico privo di interesse economico, escluso dal mercato, chiamato alla distribuzione e alla gestione comune dell’acqua nel rispetto del diritto umano  universale all’accesso ad una risorsa essenziale per la vita. Una soluzione che, non senza una difficile lotta, il Trentino potrebbe avere già anticipato.

dall' opuscolo "Acqua Bene Comune" pubblicato dall'Associazione Ya Basta e Globalproject.


claudiomeloni; ; commenti ?


mercoledì, 07 luglio 2010; 00:21

di A. Palladino

La multinazionale romana Acea aumenterà le bollette fino al 20% per accontentare gli azionisti. E non anticiperà gli investimenti nelle zone in emergenza idrica. Ma, non avendo rispettato il contratto con i comuni della Provincia, dovrebbe pagare una penale di 20 milioni di euro. Che potrebbero servire a diminuire i costi per i cittadini. Ma i sindaci la salvano: rivedremo la regola 
Il diavolo si nasconde nei dettagli, dice un vecchio detto. E a volte in una banale bolletta dell'acqua si può scoprire la più grande balla che viene raccontata da qualche anno a questa parte: la gestione privata e il mercato sono l'unica vera soluzione per salvare i nostri acquedotti.
Conviene partire dalla fine della storia, dalla fattura che arriva nelle case italiane. Più precisamente dei romani, la cui acqua è fornita da tempo immemorabile da Acea, società divenuta nel frattempo privata e primo gestore italiano. 
Il prezzo è giusto?
La bolletta dell'acqua si basa su una variabile indipendente, vero totem della gestione privata: il ricavo garantito per il gestore. Poco importa se c'è la crisi, ad Acea - così come ad Hera o Iride, ad Acqualatina o alla calabrese Sorical - alla fine dei conti gli utili devono essere garantiti. L'esempio più classico di come il prezzo dell'acqua si basi sui diabolici meccanismi del ricavo garantito viene da Firenze, dove il sistema idrico è gestito da Publiacqua, società controllata da Acea Holding. Quando i fiorentini iniziarono a risparmiare l'acqua, la società chiese di aumentare il prezzo per compensare la flessione della vendita. 
Qualcosa di simile accadrà a Roma. Dal primo gennaio 2011 la società romana potrà fatturare solo i metri cubi realmente erogati e non una cifra a forfait, un sistema che ha garantito finora un ricavo stabile e sicuro ad Acea. Un atto dovuto, visto che in questo senso la legge parla chiaramente. Ma facendo i conti la società si è accorta che avrebbe incassato meno di quanto dovuto ed ha chiesto di aumentare la tariffa, con un incremento che in alcuni casi potrebbe arrivare al 20%. Chi comanda sul tavolo alla fine sono i conti, gli utili e gli azionisti.
Se la qualità sparisce
Il prezzo dell'acqua nella capitale d'Italia ha però qualche dettaglio - decisamente significativo - in più. Il contratto che regola la gestione del servizio idrico - approvato dai consigli comunali di 74 comuni della provincia oltre che di Roma - prevede un sistema per garantire l'efficienza di Acea. C'è un parametro nel costo dell'acqua - chiamato Mall - che dovrebbe diminuire il ricavo riconosciuto ad Acea quando qualcosa non funziona. In sostanza ogni anno, secondo il contratto in vigore, il gestore deve presentare i dati sui reclami, sulle interruzioni del servizio, sulla riduzione dell'erogazione dell'acqua e su altri parametri che misurano la qualità. Alla fine - si legge sempre nel contratto - ne deriva un numero in grado di ridurre i soldi che verranno dalle bollette.
Dal 2003 - anno della convenzione con Acea - ad oggi questo parametro non è stato mai applicato. Il perché lo spiega un documento preparato dalla segreteria tecnica operativa dell'Ato 2 e distribuito ieri ai sindaci della provincia di Roma: «Fino ad ora nonostante le numerose richieste il gestore non ha integrato tutte le informazioni necessarie per il calcolo di tali parametri e risulta quindi impossibile, a meno di simulazioni, calcolare il valore reale del parametro Mall». E subito dopo l'organo tecnico che si occupa di vigilare sulla gestione di Acea prova a fare due conti: «Tale simulazione, se fosse confermata, comporterebbe una penale di circa 20 milioni di euro all'anno». In altre parole, se il contratto con Acea fosse stato rispettato e si fosse calcolato il parametro che misura la qualità del servizio, alle famiglie di Roma e provincia l'acqua sarebbe costata 20 milioni di euro in meno. Un cifra che potrebbe arrivare - secondo il calcolo teorico realizzato dai tecnici - a 160 milioni di euro, considerando il periodo dal 2003 al 2010. Cifre difficili da confermare, visto che fino ad oggi Acea non ha fornito tutti i dati richiesti e dovuti.
La risposta la società l'ha data ieri durante la conferenza dei sindaci dei comuni della provincia di Roma. «Quel parametro non ci piace», ha spiegato l'amministratore delegato di Acea Ato 2 Sandro Cecili. E subito è arrivato l'assist da chi avrebbe dovuto far rispettare quella regola: rivedremo il sistema, hanno spiegato dal tavolo della presidenza dell'Ato 2. 
L'utile è sacro
Il presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti ha un ruolo importante nella gestione dell'acqua nella zona di Roma. Coordina l'autorità d'ambito e rappresenta i comuni nell'assemblea dei soci di Acea Ato 2. Non ha un gran potere in realtà, visto che Acea Holding ha in mano il 97% del pacchetto azionario, lasciando il resto diviso tra provincia e i 74 comuni gestiti. Sarà forse per questo che la sua proposta di anticipare gli investimenti nelle zone dove l'emergenza idrica dura da anni è caduta nel vuoto. Di fronte ad un utile milionario la provincia di Roma aveva chiesto che il 50% fosse utilizzato come anticipo di cassa per intervenire subito. Nessun regalo, ovviamente, perché quei soldi «Acea li avrebbe integralmente recuperati con la tariffa nei prossimi anni», come spiega l'assessore provinciale all'ambiente Michele Civita. Ma Acea Holding - che ha il controllo pressoché totale della società che gestisce l'acqua in provincia di Roma - ha risposto con un no secco: quei soldi vanno agli azionisti. In fin dei conti loro l'acqua la vendono, e a che prezzo.

il Manifesto

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lunedì, 05 luglio 2010; 14:17

Dopo Amaseno, probabilmente
toccherà anche ad Aprilia

DI STEFANO CORTELLETTI

La Cassazione ha dato ragione al Comune di Amaseno contro la Provincia di Latina
Acqua, «ricorsi inammissibili»
Ora sarà la volta di Aprilia che ha la strada spianata per decidere se uscire da Acqualatina
Dopo Amaseno, probabilmente toccherà anche ad Aprilia. La Corte di Cassazione, con ordinanza n.14901/2010, ha dichiarato inammissibili i ricorsi proposti dalla Provincia di Latina e dal comune di Sperlonga, i quali che chiedevano di annullare la sentenza con cui il Consiglio di Stato aveva dato ragione al comune di Amaseno, che nel 2006 non aveva voluto approvare la convenzione di gestione Ato4-Acqualatina. La Provincia e Sperlonga sono stati condannati a pagare le spese di giudizio alla Regione Lazio ed al comune di Amaseno: «E’ stata fermata, l’arroganza tenuta dalla Provincia e da taluni comuni allineati politicamente, che hanno provato a frenare i comuni “ribelli” di Amaseno, Cori, Aprilia, Anzio che tra il 2006 ed il 2007 hanno deciso di non approvare il contratto di servizio con il gestore», spiega il Comitato Acqua Pubblica di Aprilia. Contratto che era «diverso da quello previsto dalla legge e sottoscritto dai presidenti della Provincia nel 2002 (Presidente Martella) e nel 2006 (presidente Cusani) senza ottenere preventivamente l’approvazione dei consigli comunali degli enti dell’Ato4». «Oggi è il caso di ricordare come nel 2006, il Presidente Cusani giudicò inutili le delibere di non approvazione della convenzione di gestione da parte dei comuni di Cori, Aprilia ed Amaseno. Un atteggiamento arrogante teso esclusivamente a difendere il “gioiello” Acqualatina creato dall’acquapoliticapontina», spiega Alberto De Monaco del Comitato. «Si conferma oggi vincente la determinazione dei cittadini che per anni hanno pressato i comuni affinché smettessero di essere semplici spettatori di una gestione costosa, inefficace e fallimentare, per i cittadini- utenti e per le casse degli enti locali. E’ semplicemente scandaloso che tutto sembri “normale” nonostante i costi degli errori fatti ricadano e ricadranno sui cittadini almeno per i prossimi 20 anni». A questo punto più nulla può fermare il comune di Aprilia «se vuole essere determinato», precisaDe Monaco. «Infatti, sarebbe un vero azzardo, se come annunciato, la Provincia e L’ATO4 procedessero in Cassazione anche per far annullare la sentenza 5501/2000 con cui il Consiglio di Stato, dando ragione al Comune di Aprilia, ha riconosciuto la libertà del singolo Comune di non approvare la convenzione». Ancora una volta la cronaca giudiziaria dà ragione a chi avversa Acqualatina. Aprilia ha ancora una volta la strada spianata per decidere di uscire da questo tipo di gestione.

www.laprovincia.it

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domenica, 27 giugno 2010; 06:00


Da un milione a venticinque
di Ugo Mattei

Nessun giornale ha seguito negli anni la battaglia globale contro la privatizzazione dell' acqua tanto da vicino quantoil manifesto. In Italia la copertura mediatica fin qui ottenuta dall' imponente movimento politico che ci ha condotti al raggiungimento dello storico traguardo di un milione di firme per i Referendum promossi dal Forum e dai giuristi del Comitato siacquapubblica è stata pressoché inesistente. 
Malgrado ciò, la consapevolezza dell' importanza della battaglia politica per i beni comuni che stiamo conducendo incominciando dall' acqua si sta diffondendo a tutti i livelli della società italiana con ritmo più che incoraggiante. 
E all' esperienza di lotta italiana, la prima di queste dimensioni in un paese occidentale ricco, cominciano a guardare con interesse e speranza milioni di compagni di paesi lontani, soprattutto in America Latina. Sicché il Forum italiano in questi mesi interpreta l' avanguardia della lotta globale contro il più inquietante e pericoloso fra i saccheggi del bene comune che le multinazionali stanno perpetrando. 
Il compito che ci attende di qui a circa un anno è molto impegnativo ma non impossibile.
Sul piano giuridico occorre argomentare in modo stringente, per impedire alla Corte Costituzionale di scippare il movimento del suo diritto a far esprimere il popolo sovrano. Abbiamo preparato bene i quesiti, ma non di rado in passato, soprattutto in materia referendaria, la discrezionalità della Consulta si è trasformata in valutazione di opportunità politica. 
È anche per questo che abbiamo deciso di non fermarci dopo aver raggiunto la soglia di sicurezza (circa 650.000 firme) e che non ci fermeremo neppure ora che abbiam raggiunto la storica cifra a sei zeri! 
Sul piano politico bisogna attivarsi fin da subito per portare alle urne circa 25 milioni di elettori per superare il quorum di validità (50% +1 degli aventi diritto) e far rivivere il nostro più importante strumento di democrazia diretta. Ciò rende indispensabile non abbassare la guardia dopo aver consegnato le firme e soprattutto inventare modi creativi per tenere alta l' attenzione e la mobilitazione sul nostro tema (perché Vasco o Ligabue non fanno una bella canzone?). 
In ogni caso noi riteniamo che il successo di una battaglia come la nostra dipenda (come peraltro la salvezza ecologica del pianeta) più dalla moltiplicazione di microcomportamenti di attivismo politico che non dalla (improbabile) apertura di un grande dibattito sui media. 
È assai probabile che, come sempre , i nemici della democrazia diretta utilizzino la strategia di invitare gli elettori ad «andare al mare» per far fallire il referendum piuttosto che misurarsi democraticamente sul merito della questione che stiamo rivolgendo al corpo elettorale. 
In pratica quindi ogni firmatario ha un anno di tempo per convincere 25 elettori che non hanno firmato ad andare a votare (anche no!) al referendum sull'acqua entrando così democraticamente nel merito dei nostri argomenti nostri e di quelli dei nostri antagonisti. 
Un anno per parlare di un tema reale mentre si prende il caffè o sul tram, facendo rivivere la democrazia della partecipazione respingendo quella delle rassegnazione e dell' astensionismo. Basterà che tutti convincano due non firmatari al mese, uno ogni due settimane! E per raggiungere anche qui una soglia di sicurezza, proviamo a convincerne uno a testa alla settimana. Non è impossibile. 
Anche ai tempi del referendum elettorale contro la partitocrazia che produsse il crollo della prima repubblica Craxi e gli altri invitarono gli elettori ad andare al mare... Forse fra un anno, con la crisi che morde, matureranno finalmente le condizioni per spazzare questa oscena seconda repubblica fatta non solo di berlusconismo pacchiano ma anche di conformismo privo di speranza. 
Il manifesto, pubblica tutti insieme sul suo sito una ricca selezione di scritti apparsi durante questa campagna perché vuole offrire uno strumento in più da utilizzare nel nostro mini-compito personale di persuasione... ricordiamo: due amici alla settimana da subito! Se avessimo avuto i soldi lo avremmo distribuito ai nostrri lettori in edicola...ma questa è un' altra storia di beni comuni a rischio di cui purtroppo ci sentirete ancora parlare fra poco.

www.ilmanifesto.it

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sabato, 26 giugno 2010; 06:00


E ora parliamo di pubblico partecipato
di Alberto Lucarelli

  • La straordinaria campagna referendaria per l'acqua pubblica ha raggiunto il milione di firme. Il processo referendario, sebbene ignorato ed ostacolato dalla stampa di regime, sempre più vincolata da interessi finanziari ed industriali, ha suscitato una mobilitazione che non ha eguali nella storia del nostro Paese.
    L'auspicio è che da oggi ci si metta a lavorare per far emergere ed affermare un nuovo modello di «pubblico», estraneo, in coerenza con i principi costituzionali, alle logiche del mercato e del profitto; un modello di democrazia partecipata, di pubblico partecipato, basato sulla separazione tra politica ed amministrazione.
    Un modello in grado di porsi quale alternativa a quel pubblico devastato da partiti e correnti di partito, utilizzato come contenitore di voti, intreccio di interessi, crocevia di malaffare tra pezzi deviati della pubblica amministrazione, della politica, della finanza, della borghesia delle professioni; un modello in grado di fronteggiare quel pubblico utilizzato per «far cassa» prima delle campagne elettorali.
    Lavorare per una nuova dimensione di pubblico, nel quale sia ben chiaro che società miste e società pubbliche rappresentano soggetti orientati fisiologicamente verso interessi di natura particolare, ben distanti dal perseguimento di interessi generali, espressione di nefaste contaminazioni e di multiformi e variegati interessi, ma dove sia ben chiaro che anche il nobile modello giolittiano di azienda municipalizzata è stato negli anni piegato a squallidi interessi di bottega.
    Si è generata in questi mesi, intorno alla battaglia per l'acqua pubblica, un'euforia partecipativa, una straordinaria energia che proviene da cittadini attivi, sempre più informati e ben disposti ad entrare in un meccanismo di «formazione permanente», dove il sapere va inteso quale bene comune. Questa volta non bisogna consentire che tali energie svaniscano nel nulla, o peggio ancora, che ripieghino nell'attuale schema partitico, incapace di comprendere la natura più profonda di questo fenomeno.
    Lo slancio partecipativo al quale stiamo assistendo dovrà servire per configurare una nuova dimensione di pubblico partecipato, nell'ambito della quale, coinvolgere associazioni, comitati, movimenti, ponendoli in effettiva condizione di proporre, gestire, controllare. Il fenomeno partecipativo in atto dovrà servire per uscire dalle pastoie burocratiche ed ipocrite che, a partire dagli anni Novanta, hanno ridotto il diritto di partecipazione a mera istanza lobbystica e neo-feudale o a forma di confusionismo sociale.
    Tuttavia, il presupposto per la costruzione di un nuovo modello di pubblico partecipato è uscire dalla logica proprietaria che lega il dominus pubblico al bene e considerare che, quanto meno in merito ai beni comuni e ai servizi pubblici ad essi riconducibili, si è in presenza di beni di appartenenza collettiva, in cui il gestore, ancorché pubblico, è vincolato dalla tutela dei diritti fondamentali e dalle fasce d'utilità che deve garantire, anche e soprattutto per il rispetto delle generazioni future.
    In questa nuova dimensione di pubblico partecipato, i soggetti gestori dovranno essere obbligati a gestire i beni comuni in quanto beni propri dei cittadini, in quanto responsabili del governo dei beni comuni, in proporzione al loro potere, che rappresenta la fondazione perpetua dello Stato sociale, di uno Stato sempre da costruire e sempre, come vediamo in questi giorni, in via di dissolvimento.
    La scissione dell'appartenenza del bene (appartenenza universale) dal titolo di proprietà individuale (proprietà pubblica) dovrebbe evitare quel fenomeno che è stato definito dell'abuso del diritto; la conversione del diritto soggettivo (diritto di proprietà) in funzione (socio-economica) del bene dovrà aprire la strada del controllo partecipato sull'esercizio del diritto e sul suo eventuale abuso. Questa nuova posizione del pubblico, con l'obbligo di gestire, in forma partecipata, un bene di appartenenza collettiva, dovrebbe impedire il ricorso a infruttuose ed opache concessioni, o ad altre forme di esternalizzazione, che hanno quale unico risultato il depauperamento del patrimonio e delle casse pubbliche.
    Il progetto della commissione Rodotà, incaricata nel 2007 dal Governo Prodi di modificare quella parte della codice civile relativa alla proprietà pubblica, aveva formulato una prima proposta normativa di bene comune, ben oltre la nozione di demanio e bene pubblico. Tale schema di disegno di legge ha avuto il pregio di contribuire ad aprire nel nostro Paese una discussione seria intorno alla nozione di bene comune, certamente più in armonia con la Costituzione che quella di demanio presente nel codice civile del 1942.
    Il tema dei beni comuni ha contributo ad aprire nuovi scenari e dimensioni dello spazio pubblico, secondo una visione meno statalista e burocratizzata, ma piuttosto orientata a forme di gestione definibili di governo pubblico partecipato, tali da impedire che il proprietario pubblico continui a saccheggiare e a fare affari con i beni comuni: dall'acqua, alle acque minerali, alle cave, alle radiofrequenze, alle spiagge, ai fiumi, solo per citarne i più importanti. Dunque, da oggi, sulla base di questo straordinario successo, dovremo lavorare per realizzare un nuovo modello di pubblico, in grado di impedire lo sfruttamento dei beni comuni a vantaggio di pochi e di fronteggiare intrecci affaristici di variegata natura.
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venerdì, 25 giugno 2010; 06:13


Un bel diluvio
di Stefano Rodotà
  • Cari compagni del manifesto,
    «Pensavo che piovesse, non che diluviasse». La vecchia metafora acquatica cade a proposito per commentare il superamento di un milione di firme, che ne rovescia il tradizionale significato pessimistico. Credo che, in tutti, vi fosse la consapevolezza che le firme necessarie per il referendum sull'acqua come bene comune sarebbero state raccolte: una previsione, questa, confortata dall'esperienza della legge d'iniziativa popolare, sottoscritta da quattrocentomila di persone. Ma i tempi rapidi e l'ampiezza del consenso non erano affatto scontati. Questo indubitabile successo merita qualche commento. Eccone alcuni, in rapida sintesi.
    L'agenda politica è stata cambiata. Ma il punto vero non è tanto quello di aver allungato un elenco. Si è imposto un tema, quello appunto dei beni comuni, che risponde a logiche e a categorie diverse da quelle oggi prevalenti, e violentemente prevalenti. Un mutamento qualitativo, dunque. E questo è avvenuto ad opera di un soggetto nuovo che, se i quesiti saranno ritenuti ammissibili, assumerà la qualità di «potere dello Stato» per tutta la fase referendaria. Bisogna, allora, cominciare ad agire «come se» questa fase si fosse già formalmente aperta, affrontando in primo luogo il tema, politico e non solo giuridico, della difesa dei quesiti davanti alla Corte costituzionale.
    Si deve poi registrare il fatto che le divisioni, indubitabili e prevedibili, non seguono gli allineamenti abituali delle forze politiche. Di questo bisogna tenere il massimo conto, non cedendo però alla logica vecchia dell' «aprire contraddizioni». Si deve cercar di capire in che cosa consista questo schieramento altro. Non si deve cedere alla tentazione autoreferenziale, comprensibile dato il successo ottenuto, ma cercar di stare in questo campo più aperto, con strumenti culturali e forme organizzative adeguate.
www.ilmanifesto.it

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