lunedì 23 gennaio 2012


 Appello di Survival per fermare i lavori. I costruttori: «allarmi ingiustificati»


Una diga lascia a secco 200mila etiopi
L'impianto, realizzato dall'italiana Salini, blocca le piene del fiume Omo che alimentano agricoltura a pascoli.

MILANO - Su oltre 200mila persone che in Etiopia già non se la passano bene incombe un'ombra gigantesca, che parte dall'Italia. Si chiama Gibe III: è una diga alta 240 metri il cui bacino si allungherà per 150 km. Posizionata nella bassa Valle dell'Omo (vedi mappa), e realizzata dall'italiana Salini Costruttori, questa struttura mastodontica, destinata a diventare la più grande dell' Africa, muterà drasticamente la portata del fiume Omo, principale affluente del Lago Turkana del Kenya, eliminando il naturale ciclo delle piene e mettendo a repentaglio coltivazioni e pascoli dell'intera area. Il Gibe III è il nuovo passo che seguirà il Gibe II, impianto con un tunnel lungo 26 chilometri che genera elettricità, sfruttando la differenza di altitudine tra il bacino della diga Gibe I e la sottostante valle dell'Omo. Anche questo impianto è stato realizzato dalla Salini, che ha messo a frutto il più grande contributo versato dalle casse italiane per un progetto all'estero: 220 milioni di euro. Almeno in parte spesi male, visto che un pezzo di questo tunnel, inaugurato il 13 gennaio scorso alla presenza del ministro degli Esteri Franco Frattini, dopo 12 giorni è crollato (vedi video) interrompendo subito il flusso di elettricità che, nelle parole del ministro «avrebbe dovuto cambiare la vita all'Etiopia». E invece Meheret Debebe, capo dell'Ethiopian Electric and PowerCorporation (EEPCo), l'ente elettrico etiope, ha invitato la gente a «comprendere il problema e risparmiare energia finchè il guasto non sarò risolto».
I DANNI - Ma quella è storia passata. Ora all'orizzonte c'è quella della diga Gibe III che rilancia rischi enormi sulla testa delle popolazioni indigene della valle dell’Omo legati alla scomparsa del naturale ciclo delle piene. Danni esclusi però dalla Salini già nello scorso gennaio, in una dichiarazione pubblicata suPanorama: «Abbiamo previsto rilasci d’acqua controllati a beneficio dell’agricoltura e progettato l’invaso in modo che si riempia a una velocità compatibile con la quantità delle piogge. Questa è un’occasione per trasformare l’Etiopia in un esportatore di energia, se l’Italia non farà la sua parte la faranno i cinesi, che si sono già aggiudicati la costruzione della diga Gilgel Gibe IV». Prendere o lasciare quindi. Ma i rischi a cui vanno incontro le popolazioni indigene sono invece confermati in un dossier realizzato da International River, che studia e tutela i diritti delle popolazioni che vivono sugli argini dei fiumi: «Gli agricoltori locali piantano le colture lungo le rive del fiume dopo ogni piena annuale. Queste ridanno anche vita ai pascoli per il bestiame e segnano l’inizio della migrazione dei pesci. Se non si fermeranno i lavori e non si interverrà con adeguate misure di mitigazione, la diga provocherà carestie croniche, problemi di salute, dipendenza dagli aiuti umanitari, e un generale disfacimento dell’economia della regione e della stabilità del suo tessuto sociale, in un ambiente ecologicamente già di per sè molto fragile».
APPALTO E COSTRUZIONE - I lavori di costruzione sono iniziati nel 2006: la Salini ha aperto il cantiere in accordo con il governo etiope che ha approvato l'appalto a trattativa diretta, senza alcuna gara e quindi senza comparazione delle offerte. «Nella fretta di procedere - si legge ancora nel dossier di International River - il governo ha omesso di valutare tutti i rischi economici, tecnici e d’impatto ambientale e sociale, violando leggi interne e standard internazionali. Inoltre non ha preso in considerazione gli effetti legati ai cambiamenti climatici, che sul lungo termine potrebbero incidere drammaticamente sulla capacità produttiva della diga. Oggi sono stati effettuati studi postumi alla costruzione per confermare una decisione presa anni fa». L'unica valutazione di impatto ambientale è stata fatta a posteriori, a cantiere già aperto. «Al di là di questa anomalia, che non è di poco conto - commenta Marco Bassi, antropologo italiano dell'università di Oxford appena rientrato dalla Valle dell'Omo, dove studia le culture indigene - non si tratta di uno studio degno di questo nome. L'ho verificato di persona quando mi sono trovato nelle aree indicate dalle mappe della relazione: non sono segnati i villaggi, non si traccia in modo preciso la distinzione tra zone agricole e selvatiche mentre quelle a pascolo non sono nemmeno indicate. Come si può pensare che ci siano certezze che una diga di quelle dimensioni funzioni in modo da salvaguardare le economie di sussistenza della popolazione? La verità è che le tribù dei Kara e dei Kwegu che vivono lungo il corso del fiume sono condannate all'estinzione e anche tutte le altre che abitano sul delta vedranno compromesse le loro fonti di sostentamento».
AFFITTO DELLE TERRE - Oltre ad accarezzare l'idea di vendere energia elettrica al Kenya, nella Valle dell'Omo il governo etiope progetta di affittare vaste aree di terra indigena a compagnie e governi stranieri per coltivazioni agricole su larga scala, biocarburanti inclusi. Si tratta di circa 120mila ettari, un business colossale. E da qui arriva la spinta alla costruzione di Gibe III: per l'irrigazione verrà attinta acqua dalla diga. La maggior parte dei popoli colpiti non sa nulla del progetto e il governo sta lavorando contro le organizzazioni tribali a loro insaputa. L'anno scorso, nella parte meridionale del paese le autorità hanno sciolto almeno 41 associazioni locali rendendo impossibile il dialogo e lo scambio di informazioni sulla diga tra le varie comunità. «Per le tribù della valle dell'Omo - ha detto Stephen Corry, direttore generale di Survival International, associazioni che tutela le popolazioni indigene - la diga Gibe III sarà un cataclisma di ciclopiche proporzioni. Perderanno le loro terre e tutti i loro mezzi di sussistenza. Nessun ente degno di rispetto dovrebbe finanziare questo atroce progetto».
LA CAMPAGNA DI SURVIVAL E LA REPLICA DELLA SALINI - Per prevenire le conseguenze catastrofiche del progetto, Survival ha lanciato unacampagna internazionale in cui chiede al Governo etiope di sospendere i lavori di costruzione e raccomanda ai possibili finanziatori - tra cui la Banca Africana di Sviluppo (AfDB), la Banca Europea per gli Investimenti (BEI), la Banca Mondiale e anche il Governo italiano attraverso la Cooperazione allo Sviluppo - di non sostenere il progetto. A questa iniziativa si sono associate la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Counter Balance coalition, Friends of Lake Turkana e International Rivers. La Salini replica in modo netto: «Siamo di fronte all’ennesima azione irresponsabile e priva di fondamento tecnico e scientifico contro il progetto Gibe. Tutte le affermazioni critiche contenute nell’appello di Survival, infatti, per quanto possano apparire suggestive ai non addetti ai lavori, o sono false o sono frutto di elementari errori aritmetici e tecnici se non addirittura di macroscopici errori di fatto» (leggi il comunicato di Salini costruttori in versione integrale). Un fatto, che non rassicura, resta certo: le popolazione che vivono nella Valle dell'Omo, fino a quando hanno visto comparire le ruspe, sono rimaste all'oscuro della diga che incombe sulla loro testa.

Stefano Rodi
Il corriere della sera, Domenica 28 Marzo 2010

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sabato, 27 marzo 2010; 08:08


IN FRANCIA IL MERCATO DEI SERVIZI IDRICI SI APRE ALLA CONCORRENZA

La Saur, la terza multinazionale nel mercato dei servizi idrici, conta di incrementare la sua quota attraverso il rinnovo dei contratti di gestione(contrat de delegation). Infatti la legge Sapin del 1993, e la seguente legge Bernier del 1995, hanno limitato la durata massima di tali contratti a quindici anni. Ciò vuol dire che un gran numero di essi, tra cui anche alcuni contratti relativi a grosse municipalità francesi, in scadenza tra il  2010 e il 2015, darà il via ad una vera e propria ondata di nuove offerte pubbliche.
Nel 2009 il numero dei contratti di gestione scaduti è stato di 989, contro una media di 600 nel periodo compreso tra il1998 e il 2006.
Tra questi anche il contatto di gestione del consorzio di comuni dell'Ile-de-France
(Sedif Syndicat des eaux d'Ile-de- France) con 4 milioni di utenti, attualmente ancora in corso di attribuzione.
Secondo l'inchiesta del centro studi BIPE pubblicata il 10 marzo scorso, su 4.1 miliardi di metri cubi di acqua distribuiti nel corso del 2008, ben il 71% 
provenivano da operatori privati; la restante parte da aziende pubbliche (règies municipales).
Veolia detiene il 39% del mercato idrico, valutato attorno ai 12,3 miliardi di euro (includendo la distribuzione di acqua potabile e la depurazione), mentre la Lyonnaise des Eaux (filiale francese della Suez Environnement) detiene il 19%.
Mai come ora le multinazionali citate sono sotto pressione da parte delle organizzazioni di consumatori - principalmente UFC e Que Choisir - oltre che dagli utenti del servizio. I rappresentanti dei cittadini eletti nelle varie amministrazioni, spesso su consiglio dei dirigenti oramai in pensione dei due grandi gruppi, non esitano a rinegoziare le condizioni dei contratti di gestione, sia alla scadenza naturale degli stessi, che nel corso degli incontri quinquennali previsti dai contratti.

IL  PASSAGGIO ALLA REGIE

Nel 2009 la Città di Parigi è passata ad una gestione idrica pubblica attraverso règie municipial, così come ha fatto anche la città di Rouen.
Nel frattempo nove comuni dell'area Seine-Saint-Denis - tra cui Bagnolet, Bobigny, Bondy, Le Prè-Saint-Gervais, Les Lilas, Montreuil, Noisy-le-Sec, Pantin, Romainville) hanno recentemente creato una nuova agglomerazione denominata Est Ensamble che, con i suoi 400.000 abitanti, ha intenzione di volersi staccare dal Sedif, e di affidare la gestione del servizio idrico ad una nuova règie municipal.
"E' però necessario che questi comuni valutino la convenienza del modello di gestione in règie, non ad un dato istante T, ma sull'intero periodo di durata del contratto" afferma Marc Reneaume, presidente della Federazione delle imprese idriche. "Infatti nella prima parte del contratto il gestore effettua gli investimenti previsti dagli accordi; ma è solo nella seconda parte del contratto che questi comincia a realizzare dei profitti".
La bolletta dell'acqua, di un importo medio annuale pari a 425 euro per appartamento, copre tre tipologie di costo: quello della distribuzione dell'acqua potabile (pari al 42% dell'importo complessivo), della depurazione delle acque reflue(pari al 36%), e infine delle tasse e imposte previste per finanziare le agenzie di bacino  (il 22%). Se il consumo di acqua diminuisce in media l'1% l'anno - viceversa i costi per la depurazione, secondo gli standard imposti dall'Unione Europea, unitamente alle tasse, sono destinati a crescere ulteriormente.

fonte: lemonde.fr
"Le marchè de l'eau s'ouvre enfin à la concurrence"
traduzione di Claudio Meloni










venerdì, 26 marzo 2010; 07:14


LA PIAZZA DELL'ACQUA PUBBLICA SCUOTE 
"IL SOLE 24 ORE"

La manifestazione nazionale di sabato 20 marzo “per la ripubblicizzazione dell’acqua, per la tutela di beni comuni, biodiversità e clima, per la democrazia partecipativa” ha colto nel segno.
Le persone che sono state richiamate in piazza, a Roma, da associazioni e comitati riuniti nel Forum italiano dei movimenti per l'acqua, hanno conquistato l'attenzione dei media e spaventato i fautori della privatizzazione, costretti a correre ai ripari. I metodi utilizzati, senza alcuna fantasia, restano quelli che abbiamo descritto nel libro “L'acqua è una merce”. Il primo, e il più abusato, è quello di negare il problema. E per farlo si usano i quotidiani. Al giochino si è prestato questa volta Giorgio Santilli, che dalle colonne de Il Sole-24 Ore ha ammonito: “Non è la privatizzazione il problema dell'acqua in Italia”.
Scrive Santilli sul quotidiano di Confindustria: “Per separare la demagogia dalla corretta analisi politica è necessario porsi alcune domande. La legge voluta dal governo Berlusconi prevede effettivamente la privatizzazione del bene acqua? È davvero la privatizzazione il problema-chiave in un paese dove il 90% delle gestioni idriche restano pubbliche? Se così non è, quali sono, invece, i problemi reali? La legge sui servizi pubblici locali conferma il carattere pubblico del bene acqua.  Non è vero che l'acqua possa essere privatizzata, non ci sono dubbi. L'acqua resta un bene amministrato. Restano saldamente nelle mani delle autorità pubbiche l'indirizzo e il controllo amministrativo (agli enti locali e agli Ato), la formazione delle tariffe, la proprietà degli acquedotti, degli impianti di depurazione, delle fognature, degli altri impianti. Il problema è rafforzare (anche tecnicamente) e lottizzare meno queste leve pubbliche di comando del sistema”.
Lo ribadiamo: il problema non è “il carattere pubblico dell'acqua”, ma aprire o meno a una logica privatistica la sua gestione. Inutile insistere sulla proprietà pubblica dell'acqua, un “principio” che salva solo la forma, mentre la gestione -ben più sostanziale- va al privato. In un Paese che fatica a investire adeguatamente nelle strutture di rete, acquedotti-fognature-depurazione, il problema principale non è -come scrive Santilli- la presenza del pubblico nelle società di gestione degli acquedotti, ma la de-responsabilizzazione dello Stato, il fatto che gli investimenti sulle reti del servizio idrico integrato non passino per la fiscalità generale. A partire da un'analisi di questo tipo, sarebbe possibile per Santilli e tanti altri, affrontare il tema senza montare inutili polemiche. Perché non è vero che “le polemiche attuali contro la privatizzazione dell'acqua presentino un sapore ideologico”; l'ideologia è quella dei partigiani della “superiorità assoluta del mercato”.
Qualche segnale di un'inversione di tendenza, invece, arriva dalla politica: dall'esperienza del Coordinamento nazionale “Enti locali per l’acqua bene comune e la gestione pubblica del servizio idrico” è nata un'associazione (http://www.acquabenecomune.org/spip.php?article5715). A inizio marzo, a Roma, ha promosso un'assemblea cui hanno partecipato oltre 150 sindaci. E a Milano il capogruppo del Partito democratico a Palazzo Marino, Pierfrancesco Majorino, ha presentato una mozione per invitare la giunta “adifendere l’attuale gestione pubblica del servizio idrico integrato” e “ad inserire all’interno dello Statuto del Comune di Milano il riconoscimento del diritto all’acqua come Diritto Umano Universale incomprimibile, da realizzarsi attraverso una gestione priva di rilevanza economica”. Cioè affidata a un ente strumentale del Comune.
http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=2285&fromHP=1

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giovedì, 25 marzo 2010; 07:34

Con il nuovo statuto dentro Acea i piccoli azionisti non contano più

Potere romano

di Giovanna Lantini

Primi posizionamenti nella guerra per l'acqua romana, con la concessionaria del servizio idrico della capitale, Acea, che fa un passo avanti verso la strada della privatizzazione. E lo fa proprio nella giornata dedicata dall'Onu alla preziosa risorsa blu, 48 ore dopo la manifestazione romana per “l’acqua libera”. I piccoli azionisti di Acea, ieri, con una modifica dello statuto, si sono visti di fatto esclusi dalla gestione della società di cui sono grandi azionisti il Comune di Roma (51 per cento), il costruttore-editore Francesco Gaetano Caltagirone (8,94 per cento) e il gigante francese dell'energia e dell'ambiente Gdf-Suez (9,981 per cento).

In base alle norme varate ieri, infatti, la nomina dei consiglieri di amministrazione della società avverrà in base ai voti ottenuti dalle liste e, quindi, in proporzione alle quote azionarie. Meccanismo che verrà applicato per il rinnovo del consiglio della società, in calendario per il 30 aprile. In pratica, grazie alla modifica statutaria, la prossima riunione dei soci, in barba agli azionisti di minoranza assoluta (piccoli risparmiatori e dipendenti) potrà eleggere cinque rappresentanti del Comune di Roma, due di Gdf-Suez e due di Caltagirone. Con il precedente sistema, invece, fermi restando i cinque consiglieri del Comune, la seconda lista che si aggiudicava più voti aveva diritto a due consiglieri, mentre i restanti due posti andavano ai primi candidati della terza e della quarta lista. Infatti l'Associazione dei piccoli azionisti (Apa) ha contestato l'operazione: “Presenteremo un esposto alla Consob sui criteri di salvaguardia delle liste di minoranza”. Clatagirone, suocero del leader dell'Udc Pier Fendinando Casini, festeggia. E’ evidente che, con un consiglio che possa fare “scelte societarie coese che vadano nella direzione di tenere in considerazione chi effettivamente investe con numeri importanti nella società” (come spiegato ieri dal presidente di Acea, Giancarlo Cremonesi), tutto diventa più facile. Ancor più nell'ipotesi in cui si proceda sulla via di una privatizzazione accelerata perché giustificata dalla crisi e dal difficile momento vissuto dagli azionisti pubblici. Secondo quanto previsto dal decreto Ronchi da poco approvato dal governo, infatti, le quote degli enti locali nelle aziende di gestione delle risorse idriche dovranno progressivamente scendere per arrivare sotto la soglia del 30 per cento entro il 2015. Tuttavia le intenzioni del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, sarebbero quelle di anticipare i tempi. Il sindaco di Roma, nel corso di un acceso consiglio comunale di qualche settimana fa, aveva dichiarato che “per una realtà come Acea, che ha la concessione per la gestione del servizio idrico fino al 2032, una graduale privatizzazione è certamente meglio di una gara aperta che susciterebbe appetiti internazionali”.

Anche se, per ora, i francesi sono ancora titolati ad assistere a Roma all'esatto contrario di quanto avvenuto a Parigi dove, dal primo gennaio di quest'anno, il Comune guidato da Bertrand Delanoë ha ripreso in mano la gestione dell'acqua attraverso la regia municipale dell'Eau de Paris.

fonte: il fatto quotidiano del 23 marzo 2010

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mercoledì, 24 marzo 2010; 10:24


Un progetto dell'ONU destinato ad aiutare milioni di persone,
le ha invece avvelenate con l'arsenico


Oltre venti milioni di persone in Bangladesh sono a rischio di morte a causa dell' avvelenamento da arsenico, in conseguenza di un progetto di cooperazione in origine destinato ad aiutare tali persone, e che invece ha creato una vera e propria catastrofe sanitaria.
Il progetto, finanziato a livello internazionale e diretto a scavare dei pozzi in diversi punti del Paese asiatico, ha prodotto circa quarant'anni dopo, effetti completamente opposti rispetto alle reali intenzioni dei suoi promotori, con un vasto numero di abitanti soggetti ad un elevato rischio di contrarre tumori o malattie al sistema cardiocircolatorio. L'arsenico ha anche irrimediabilmente compromesso lo sviluppo intellettuale di una larga parte dei bambini contaminati attraverso l'acqua, grazie anche al ruolo fortemente negativo svolto da una dieta alimentare molto povera e scarsamente calorica.
La crisi dell'arsenico in Bangladesh risale al 1970, quando nel tentativo di migliorare la qualità dell'acqua bevuta dalle popolazioni locali,  focolaio di  epidemia di diarrea, principale causa di morte per i bambini del posto, diversi investitori internazionali decisero di affrontare un grosso sforzo economico per costruire dei pozzi di acqua potabile. Si riteneva in quel momento che i pozzi sarebbero stati in grado di rifornire le famiglie di acqua potabile di buona qualità, impedendo loro di continuare ad abbeverarsi attraverso i depositi superficiali, causa principale del decesso di 250.000 bambini l'anno.
Ma il progetto, sebbene fosse patrocinato dall'ONU e dalla Banca Mondiale, si è rivelato un disastro.
Occorre tuttavia  rilevare come alcuni controlli sulla qualità dell'acqua estratta dai pozzi fossero stati eseguiti, ad eccezione della verifica relativa alla presenza o meno dell' arsenico, che è invece presente in modo particolare nelle acque Gange ed in quelle del delta del Brahmaputra.  
Agli inizi degli anni novanta, quando venne scoperto che circa la metà dei 10 milioni di pozzi erano contaminati dall'arsenico, il Bangladesh era al centro di gravi problemi. L'Organizzazione Mondiale della Sanità definì quella del Bangladesh come "Il più grande avvelenamento di massa mai verificatosi nella storia dell'umanità... La dimensione di questo disastro ambientale è superiore a quella di qualsiasi altro mai verificatosi in precedenza; superiore anche all'incidente di Bhopal (India) del 1984, ed anche di quello di Chernobyl (Ucraina) del 1986".
Alcuni studi successivi hanno stimato che una persona su dieci di quelle che hanno bevuto acqua contaminata all'arsenico, saranno destinati a moriire di cancro ai polmoni, alla prostata o alla pelle. Anche se alcune di queste gravi malattie impiegano parecchio tempo per manifestarsi, nel 2004 oltre 3000 persone sono morte per malattie connesse all'avvelenamento da arsenico.
A partire dagli anni '90 alcune organizzazioni internazionali come l'Unicef hanno cercato di guidare la ricerca e lo sviluppo di fonti idriche alternative, come la raccolta dell'acqua piovana, ed il filtraggio dell'acqua di superficie. In questo modo, a poco a poco, il numero delle persone esposte ad un'acqua contaminata da arsenico si è ridotto." Ciò equivale a 20 milioni di persone", afferma Yan Zheng, l'esperta dell'Unicef per quanto riguarda l'avvelenamento da arsenico, residente a Dhaka. "L'impatto sulla salute è molto vario. Particolarmente visibili sono le lesioni cutanee che l'arsenico ha provocato sugli abitanti. Viceversa poco visibili ai medici e agli stessi abitanti sono gli effetti cancerogeni e sul sistema cardiovascolare".
La signora Zheng afferma che uno studio recente ha mostrato una impennata del tasso di mortalità dovuto a soggetti esposti all'avvelenamento da arsenico. "E' come se ci s rendesse conto di come il rischio di mortalità aumenti al prolungarsi del periodo di esposizione all'arsenico".   
Il governo e l'ONU pubblicheranno a breve un report per promuovere urgentemente nuove iniziative nel tentativo di risolvere quello che appare ancora oggi un vastissimo problema di contaminazione, che ha coinvolto sia l'acqua potabile che i raccolti, nel caso specifico il riso, irrigati attraverso l'acqua contaminata.
Il report suddetto, divulgato in occasione della Giornata Mondiale dell'Acqua, pone in luce come l'arsenico sottoponga ad un grave rischio buona parte della popolazione cingalese, e in particolar modo quella più giovane.
Le lesioni cutanee provocate dall'arsenico rappresentano solo il primo sintomo di una serie di gravi malattie provocate dall'avvelenamento da parte di tale sostanza.
Tali lesioni rappresentano ancora oggi l'oggetto della stigmatizzazione sociale, sulla base della credenza diffusa che ciò rappresenti la conseguenza di una grave maledizione.
"E' necessario adottare urgenti misure per cercare di concentrare l'attenzione del Paese sull'importanza di un ambiente che sia preservato da una contaminazione da arsenico" sostiene Renata Lok Dessallien, il responsabile ONU in Bangladesh.
"E' indispensabile concentrare gli sforzi del governo e dei suoi parthners per cercare di monitorare gli effetti dell'arsenico, per mitigarne gli effetti, oltre a cercare di individuare tutte le possibili cure per le malattie da questo causate".
La contaminazione da arsenico ha colpito in modo naturale buona parte delle risorse idriche del Bangladesh, attraverso l'acqua contaminata trasportata dai vari corsi d'acqua, andando a colpire milioni di persone.
In diverse parti del mondo le falde acquifere sotterranee sono contaminate dall'arsenico, come in Argentina, Taiwan ed India, con conseguenze molto gravi per la salute delle persone. Anche una parte delle falde acquifere statunitensi sono  attualmente contaminate dall'arsenico.
In Bangladesh le forze sociali più radicali continuano a protestare nei confronti  dei responsabili di questa  contaminazione su vasta scala. Se da una parte le organizzazioni cooperative internazionali e l'ONU continuano a sostenere che i test sulla qualità dell'acqua estratta attraverso i pozzi hanno seguito gli standards procedurali internazionali, altre forze sociali sottolineano la necessità di una maggiore consapevolezza da parte dei geologi e dei geografi del Paese. Altri ancora ritengono che sia l'ONU che la Banca Mondiale  non abbiano mostrato una sufficiente onestà nel riconoscere le loro rispettive responsabilità in questa vicenda.
Dipankar Chakraborti, dell'Università del Jadavpur nel Bengala dell'Ovest, esperto nel campo delle contaminazioni da arsenico, sostiene che il livello di avvelenamento che ha colpito il suo paese, è il più elevato che sia mai capitato in qualsiasi altra parte del pianeta. Anche lui sostiene che le organizzazioni internazionali ancora oggi non sono pienamente consapevoli delle loro responsabilità riguardo a questo gravissimo incidente, il quale è destinato a produrre i suoi effetti negativi negli anni a venire. Egli afferma: "Ci siamo resi conto che, quando siamo andati a intervistare nuovamente quelle persone colpite da lesioni cutanee che avevamo già sentito quindici anni fa,  circa un terzo di loro aveva contratto delle patologie tumorali".
L'anno scorso i ricercatori hanno scoperto che l'arsenico contenuto nell'acqua dei pozzi scavati dall'ONU, proveniva dalle tonnellate di arsenìco utilizzato per prevenire fenomeni alluvionali. Gli smottamenti del suolo hanno prodotto il rilascio del carbonio organico, che ha consentito all'arsenico di filtrare dai sedimenti.
Gli scienziati del MIT di Boston sostengono che una soluzione all'inquinamento da arsenico potrebbe essere quella di scavare pozzi di acqua potabile al di sotto della falda superficiale, nella falda sotterranea, che risulta isolata da quella superficiale e quindi estranea alle contaminazioni di questa.
E' necessario informare la popolazione locale sui rischi relativi all'avvelenamento da arsenico, cercando di contrastare la credenza purtroppo diffusa che gli effetti dell'avvelenamento non sono quelli di una maledizione o di una infezione.
"Promuovere la consapevolezza tra la gente circa i pericoli legati all'arsenico è essenziale" afferma il ministro della salute del Bangladesh il dr.A F M Ruhal Haque. "I lavoratori del settore sanitario  hanno il compito di promuovere questo messaggio, mentre il governo continuerà ad investire risorse nello screening e nei trattamenti medico-sanitari rivolti ai pazienti residenti nelle aree del paese maggiormente colpite".

La Birra inglese avvelenata

Nel diciannovesimo secolo l'arsenico rappresentava un inquinante molto diffuso sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. 
L'arsenico veniva impiegato oltre che nella carta da parati,  anche nei coloranti per tessuti e in quelli per dolciumi.
Le problematiche legate all'inquinamento da arsenico causato dall'uomo cominciarono ad affiorare nel 1900 nel Lancashire.  E' successo infatti che una larga parte della popolazione residente nell'area di Manchester e di Salford cominciò a manifestare sintomi di quelle che in apparenza sembravano le conseguenze di uno stile di vita smodato. Quando però il problema cominciò ad emergere con maggiore insistenza ed i sintomi dell'avvelenamento da arsenico cominciarono ad affiorare in maniera più visibile, come le macchie cutanee scure, i sospetti cominciarono a trasformarsi in certezze.
Ulteriori conferme arrivarono attraverso la società che riforniva lo zucchero usato nella fermentazione della birra.
Prima di riuscire a debellare questa grave piaga, oltre 6000 persone risultarono avvelenate, e di queste ben 80 persero la vita. Questo episodio venne preso come spunto per adottare una legislazione più restrittiva in tema di controllo sulla sicurezza alimentare dei cibi.


fonte: The Indipendent

A UN project aimed to help millions - but it brought them water contaminated with arsenic
by Andrew Buncombe




 martedì, 23 marzo 2010; 16:50


Otto milioni di persone l'anno muiono a causa della siccità

Ma nel 2030 la situazione potrebbe peggiorare per via dei cambiamenti climatici e dell'inquinamento. Soffre per carenza di 'oro blu' l'11% degli europei. In Italia molti sprechi per via delle reti "che sono un colabrodo", disperdono fino a un terzo delle risorse idriche

ROMA - Otto milioni di persone l'anno muoiono a causa della siccità e delle malattie legate alla mancanza di servizi igienico-sanitari e di acqua potabile e secondo le stime dell'Onu nel 2030 fino a tre miliardi di persone potrebbero rimanere senz'acqua. L'allarme viene lanciato in occasione della Giornata Mondiale dell'Acqua. Inquinamento, cambiamenti climatici, sprechi, renderanno infatti ancora più difficile il reperimento dell'acqua potabile. Nel mondo si passa da una disponibilità media di 425 litri al giorno per ogni abitante degli Stati Uniti ai 10 di un abitante del Madagscar, dai 237 litri a persona disponibili in Italia ai 150 in Francia. La stima del consumo medio di una famiglia occidentale è di oltre 300 litri al giorno, ma scende drasticamente sotto i 20 litri per una famiglia africana.

Secondo l'Onu 3.900 bambini muoiono ogni giorno per mancanza d'acqua. La zona più esposta rimane l'Africa: fino a 250 milioni di persone coinvolte e seri rischi per l'area sub-sahariana. Poi, il Medio Oriente dove sono presenti meno dell'1% delle risorse idriche a livello mondiale, mentre il 5% dei Paesi arabi - la regione più arida al mondo - già sono al limite delle risorse idriche. Stando alle previsioni, la popolazione mondiale, ora a 6,6 miliardi di persone, crescerà di 2,5 miliardi entro il 2050 comportando un aumento della domanda di acqua dolce di 64 miliardi di metri cubi all'anno.

La ricerca dei mezzi più efficaci per diffondere e interpretare le notizie sul clima e l'acqua nel continente sarà al centro di una conferenza panafricana a livello ministeriale, che si svolgerà a Nairobi dal 12 al 16 aprile. Promossa dall'Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) in partenariato con l'Unione africana, la riunione sarà la prima del genere a svolgersi nel continente. Nella riunione, i ministri africani responsabili della meteorologia affronteranno temi relativi alle questioni legate al clima e alle risorse idriche in Africa, dove "numerosi Paesi", ha rilevato l'0mm, "sono molto vulnerabili davanti ai disastrosi effetti dei cambiamenti climatici".  



L'Europa è naturalmente in condizioni migliori, eppure, secondo dati diffusi da Bruxelles, tra il 1976 e il 2006 almeno l'11% degli europei ha sofferto di carenza d'acqua, con un danno per l'economia di almeno 100 miliardi di euro. Storicamente, il problema è più serio nell'Europa meridionale. I Paesi del Mediterraneo ricorrono sempre di più alla desalinizzazione per la fornitura di acqua dolce. Si stima che la Spagna nei prossimi 50 anni raddoppierà il numero dei suoi impianti, che attualmente coprono il fabbisogno di otto milioni di persone al giorno. Anche l'Inghilterra comincia ad affrontare lo stesso problema.

L'indice di stress idrico, che mostra le risorse disponibili in un Paese o in una regione rispetto alla quantità d'acqua utilizzata, vede l'Italia tra i Paesi alle prese con carenze, oltre a Belgio, Bulgaria, Cipro, Germania, Malta, Spagna e Regno Unito. Il Mediterraneo poi vede un forte impatto dei turisti sul prelievo di acqua, nel periodo di picco, fra maggio e settembre.

Ma  in Italia "si assiste a uno spreco assurdo: le reti sono un colabrodo. Disperdono in alcuni casi anche un terzo della risorsa, mentre sono 8,5 milioni gli italiani che vivono in zone ove l'acqua ha difficoltà ad essere erogata con continuità'', ricorda il presidente della Cia-Confederazione italiana agricoltori Giuseppe Politi. Infatti su 383 litri di acqua erogati mediamente per ogni cittadino, solo 278 litri arrivano realmente a destinazione. Secondo la Cia le zone dell'Europa soggette a forte stress idrico "dovrebbero passare dal 19 per cento odierno al 35 per cento nel decennio 2070''.

L'Italia è anche il Paese dell'acqua minerale: secondo una ricerca di Legambiente nel 2008 sono stati imbottigliati 12,5 miliardi di litri di acqua, per un consumo pro capite di 194 litri, più del doppio della media europea e americana. Acqua di sorgente prelevata da 189 fonti da cui attingono 321 aziende imbottigliatrici "che pagano spesso cifre irrisorie per realizzare poi enormi profitti, come dimostra il giro di affari di 2,3 miliardi di euro raggiunto nel 2008".

20 marzo 2010

www.repubblica.it

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domenica, 21 marzo 2010; 17:56


L'acqua non è business. A Roma sfilano in 200mila
di Roberto Rossi


 
«Padroni del mondo gavì tocà el fondo». Tra una testa composta da quattro camionette della Polizia, con trenta agenti in assetto anti sommossa e una decina in borgese, e una coda con la stessa quantità di Carabinieri, e di blindati, ieri a Roma hanno sfilato circa 200mila persone. Contro i padroni del mondo che, secondo un immenso striscione di un gruppo di veneti, hanno toccato il fondo, una manifestazione pacifica quanto imponente ha invaso la città per chiedere, come recitava lo slogan di testa del corteo, di «ripubblicizzare l’acqua e difendere i beni comuni». Ovvero, abolire quello che comunemente è chiamato il decreto Ronchi, una legge che, con poche norme, ha affidato la gestione del servizio idrico ai privati e regalato un business da 8 miliardi di euro a pochi gruppi industriali.

Contro i padroni del mondo c’erano in prima fila i sindaci: Napoli, Gubbio, Agliano, Castel Madama, Anghiari, Capannori, Modica, Grotte, Melilli, Bassiano e poi Misterbianco, Vittoria. Ognuno con il proprio gonfalone e la fascia tricolore a tracolla. Sotto piazza Venezia qualcuno di loro ha intonato «Bella ciao». A seguire i comitati territoriali. Piemontesi, veneti, umbri, marchigiani, abruzzesi, campani, molisani, calabresi, siciliani, laziali. In sostanza tutta l’Italia, che poi è fatta di molti piccoli, minuscoli, centri. Come quello di Nocera Umbra, arrivato a Roma per la difesa del Rio Fergia, un fiumiciattolo messo in pericolo dalla società Rocchetta e dai suoi pozzi da cinquecento metri di profondità. «Sporchi dentro e “puliti” fuori» era lo slogan del comitato attivo già nel 1993 e uno dei primi ad essere riconosciuti a livello istituzionale.

Ma di striscioni ce n’erano a centinaia. Ogni centro aveva il suo per la verità. Ed erano tanti. C’era quello di Gualdo Tadino, («A noi non la date a bere»), di Cuneo («Stisa dopo stisa la pera se sbrisa», più o meno: goccia dopo goccia si sbriciola la roccia), di Velletri («Acqua spa: scarsa, privata, avvelenata»), del piccolo comune lucchese di Capannori («Capannori vuol bere l’acqua del sindaco»), uno dei tanti di Roma («Vendesi acqua pubblica, rivolgersi a Alemagno»). E ancora, uno del comitato del Basso Livenza, in provincia di Venezia, («E io pago!»), un altro dell’Abruzzo Social Forum (Acqua, cielo, terra riprendiamoci il futuro»), uno del comitato lucchese («Acqua fuori dal mercato, senza se e senza Spa»). Tutti in fila, ordinati, festanti.

Se questo movimento avrà energie sufficienti lo si capirà comunque nei prossimi mesi. Il prossimo paso sarà la campagna per il referendum abrogativo. I tre quesiti saranno presentati in Cassazione il prossimo 31 marzo. Il 15 aprile partirà la raccolta delle firme. Ne servono 700mila. Due i comitati impegnati: il primo è quello delle associazioni, comprese le diocesi; il secondo formato dai partiti politici. Finora hanno aderito formalmente Sinistra Ecologia e Libertà, il movimento di Nichi Vendola, la Federazione della Sinistra e l’Italia dei Valori. Il Pd non si è ancora pronunciato. La raccolta di firme dovrebbe durare tre mesi. Fino a luglio. Questo per permettere il loro deposito a settembre.

E se contro i padroni del mondo dovesse andar male, hanno scritto una decina di ragazzi romani, «...almeno regalatece er vino».
20 marzo 2010

www.unita.it

claudiomeloni; ; commenti ?


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