lunedì 23 gennaio 2012


 Beni comuni, un buon inizio

di Stefano Rodotà

Cari compagni del manifesto, poiché sono convinto che il vostro giornale possa e debba avere un ruolo importante nella vicenda referendaria sul diritto all'acqua, e poiché in questa vicenda ho deciso di starci, vorrei segnalare alcune questioni che dovrebbero essere tenute presenti nella campagna appena iniziata e che ci accompagnerà nei mesi prossimi. Con una premessa. L'avvio è stato straordinario: centomila firme raccolte in due giorni sui quesiti referendari. Questo significa almeno quattro cose: esistono grandi temi sui quali è possibile mobilitare le persone; la disaffezione per la politica è l'effetto di una politica drammaticamente impoverita; è possibile modificare l'agenda politica con iniziative mirate e fondate sull'azione collettiva; la leadership, pure nel tempo dell'immagine trionfante, non si identifica necessariamente con la personalizzazione o con il carisma, vero o presunto che sia.
Nessun trionfalismo, d'accordo. È stata imboccata una strada difficile, e molti e forti interessi sono già in campo per bloccare questo cammino. Ma un risultato politico è già davanti a noi. Un tema nascosto nelle pieghe di un decreto è divenuto oggetto di grande discussione pubblica. I partiti cominciano a muoversi e, anche quando lo fanno in modo sgangherato, danno la conferma che siamo di fronte a un tema ormai ineludibile.
Un tema davvero globale che, senza retorica, riguarda il governo del mondo. Guerre dell'acqua minacciano il nostro futuro. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una «società idraulica», che consentiva un controllo autoritario dell'economia e delle persone.
Questa vicenda storica ci ricorda che il tema dell'acqua è sempre stato intrecciato con quello del potere, e proprio con poteri assai forti si devono ora fare i conti: questo referendum si distingue da tutti quelli che l'hanno preceduto perché riguarda l'assetto e la distribuzione del potere in una materia decisiva per la vita delle persone.
Ma, proprio perché stiamo parlando di un potere concreto, non ci si deve impantanare in una guerriglia ideologica. Bisogna smontare gli argomenti usati per difendere l'assetto attuale e quello progettato, con precisione e senza trascurare i dettagli, seguendo il metodo indicato da Corrado Oddi nel suo intervento di domenica su questo giornale. E allora:
a) sottolineiamo che non siamo di fronte alla tradizionale alternativa tra proprietà pubblica e proprietà privata. L'acqua appartiene ai beni comuni, che sono caratterizzati dal fatto di essere «a titolarità e tutela diffusa», il che vuol dire che sono le persone e i loro bisogni che individuano gli interessi da garantire: per l'acqua è necessario un regime giuridico coerente con questa sua natura. Questa non è una posizione astratta, ma si ritrova in disegni di legge presentati al Senato dalla Regione Piemonte e dal gruppo del Pd, dove viene proposta appunto una nuova classificazione dei beni. Questo è il mutamento qualitativo che il referendum vuole realizzare, indicando un orizzonte nel quale compaiono altri beni comuni, dall'aria alla conoscenza;
b) ricordiamo al ministro Ronchi che significa poco o nulla insistere sul fatto che la proprietà formale dell'acqua rimane in mano pubblica. Fin dalla grande ricerca degli anni Trenta di Berle e Means sulla scissione tra proprietà e controllo e dai contributi dei giuristi italiani sulla distinzione tra proprietà formale e sostanziale, è un punto acquisito che il potere sta nelle mani di chi ha l'effettivo governo del bene;
c) contestiamo che gli indubbi limiti di molte gestioni pubbliche obblighino a concludere che l'unica soluzione stia nel privato. A parte le smentite venute anche dalle privatizzazioni italiane, quando si è di fronte a un bene comune bisogna ripensare il pubblico non rifugiarsi nel privato. I quesiti referendari sono strutturati proprio in modo da indicare questa via, partendo dalla esclusione del profitto e considerando nuove modalità di gestione del bene, andando oltre l'ottica di uno Stato regolatore che si rifugia nella creazione di una nuova autorità indipendente;
d) prepariamo e diffondiamo materiali che trasformino ogni quesito referendario in una formula sintetica immediatamente comprensibile; che forniscano i dati sul costo dell'affidamento ai privati, con riferimento puntuale all'aumento delle tariffe; che analizzino casi concreti come quello di Aprilia; che indichino le soluzioni possibili, da aziende pubbliche rinnovate a modelli riconducibili alla logica delle comunità di lavoratori e utenti di cui parla l'art. 43 della Costituzione;
e) evitiamo l'ennesima puntata delle polemiche interne alla sinistra: quali che siano le posizioni ufficiali assunte più o meno strumentalmente dai partiti di opposizione, i primi due giorni di raccolta delle firme hanno anche mostrato una grande adesione degli iscritti a quei partiti. Il tema dell'acqua, come tutti i grandi temi, ha l'effetto benefico di rendere autonome le scelte politiche. Non immiseriamo questa occasione in inutili ripicche;
f) parliamo più di Bernard Delanoe, e della pubblicizzazione dell'acqua nella vicina Parigi, e meno di Evo Morales, con tutto il rispetto per la sua azione;
g) dobbiamo essere consapevoli che una battaglia è stata già vinta, che la campagna per la raccolta delle firme e poi quella referendaria produrranno una mobilitazione che, quale che sia l'esito finale, non lascerà le cose come prima.
Auguri a tutti noi.
Fonte: Il Manifesto

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sabato, 15 maggio 2010; 08:25

Acqua Bene Comune

Un modello pubblico partecipato,
la sfida della legge pugliese

di Alberto Lucarelli

Il disegno di legge regionale sul governo e la gestione del servizio idrico integrato e sulla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese, approvato due giorni fa dalla giunta Vendola, è il risultato di un'attività intensa di studio, approfondimento e confronto che ha visto la mia partecipazione come coordinatore del tavolo tecnico. L'auspicio, ovviamente, è che il percorso politico-legislativo vada in porto e che il testo sia approvato definitivamente dal consiglio regionale. Al momento però è già possibile trarne alcune valutazioni, decisamente positive, che riguardano il metodo di lavoro e l'individuazione dei contenuti essenziali e di assoluta originalità.
In merito al primo punto, va evidenziato, nell'elaborazione del testo, il ruolo decisivo svolto dai rappresentanti dei comitati per l'acqua pubblica che, da anni, secondo una logica di formazione permanente, lavorano sul tema, attraverso analisi, proposte, controlli, denunce. Si è assistito, ovviamente, anche per la vocazione della giunta di Vendola, ad una pratica attiva di partecipazione diffusa e dal basso che ha consentito di percepire in maniera netta ed evidente il concetto del sapere quale bene comune. La dimensione tecnocratica, infatti, ha dovuto prendere atto della qualità e dell'incisività delle istanze partecipative che hanno dimostrato un elevato livello di maturità, responsabilità e continuità. Insomma, un reale laboratorio di democrazia della partecipazione frutto di un percorso lungo e faticoso che non ha nulla di improvvisato ma che anzi rivela un importante processo di evoluzione della coscienza civile. L'auspicio è che tale esperienza possa rappresentare un modello anche per altre realtà regionali e locali nell'ottica di un più profondo radicamento, all'interno dei meccanismi decisionali, delle istanze partecipative provenienti dalla collettività per la determinazione di scelte che siano realmente condivise. La straordinaria raccolta di firme alla quale stiamo assistendo in questi giorni e che sta facendo impallidire altre iniziative referendarie, testimonia altresì l'emersione e il consolidamento di una sensibilità molto spiccata da parte dei cittadini rispetto a questioni essenziali di interesse comune; essi, infatti, non sono più disposti a dare deleghe in bianco e ad essere destinatari passivi di decisioni calate dall'alto, che molto spesso sono espressione di un coacervo di interessi lobbistici e corporativi di stampo neo-feudale.
Per quanto riguarda i contenuti essenziali, il disegno di legge definisce l'acqua bene comune, bene di appartenenza collettiva, secondo quanto già stato sostenuto dalla Commissione Rodotà, la cui gestione viene affidata a un'Azienda pubblica regionale di diritto pubblico. La nozione di bene comune, che va ben al di là di quella di bene pubblico, impone al soggetto di diritto pubblico di gestire il bene non nella qualità di proprietario - in quanto la titolarità è collettiva - ma unicamente nell'ottica del soddisfacimento dei diritti che nei principi costituzionali trovano il loro fondamento. In questo senso, è importante rilevare la previsione nel disegno di legge di un vincolo per il gestore del servizio ad erogare un minimo quantitativo vitale sulla base degli indici di fabbisogno della popolazione, a conferma della sua impostazione fortemente garantista dei livelli essenziali.
L'importanza dell'elaborazione della nozione giuridica di bene comune va, dunque, rintracciata essenzialmente nel ruolo attribuito al gestore del servizio, da intendersi quale garante e tutore del bene in una prospettiva di effettivo soddisfacimento dei diritti fondamentali; si tratta infatti di un'impostazione gestionale che ha, sostanzialmente, la finalità di evitare ipotesi di abuso del diritto che, purtroppo, il regime dei beni pubblici tout court non solo non impedisce, ma anzi spesso agevola attraverso un intreccio affaristico pubblico-privato ed un saccheggio diffuso di beni la cui vocazione originaria va a tutti i costi salvaguardata.
Il disegno di legge è chiaro: il servizio idrico deve essere gestito da un soggetto di diritto pubblico la cui attività non deve subire alcuna contaminazione da parte del diritto societario. In questo senso s'intende non soltanto sottrarre il servizio al mercato, ma uscire dalle ambiguità delle società pubbliche che, al di là della proprietà, si muovono nell'ambito del diritto privato e quindi sono fisiologicamente orientate al profitto. Si tratta, dunque, di una scelta non soltanto conforme al diritto comunitario, che non impone agli enti pubblici né la gara né l'affidamento ad un soggetto privato, ma altresì profondamente rispettosa dell'art. 43 della Costituzione che riconosce alle istituzioni pubbliche e alle gestioni partecipate, nell'ambito dei servizi pubblici essenziali, un ruolo attivo che va ben oltre il modello regolatore.
Infine, va evidenziato che il disegno di legge non intende riproporre formule antiquate del pubblico, ma introduce un modello di pubblico partecipato, che rappresenterà la vera sfida culturale dei prossimi anni, un modello che si propone, anche in termini antagonisti e conflittuali, di combinare la democrazia della rappresentanza con la democrazia della partecipazione.

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venerdì, 14 maggio 2010; 07:06


Il comune approva una delibera in cui si chiede la revoca dei servizi idrici. Il gruppo francese alle prese anche con il rebus Calabria
LATINA VUOLE TOGLIERE A VEOLIA LA GESTIONE DELL'ACQUA


  di Luisa Leone 
Nuova grana italiana per il gruppo Veolia. Stavolta il problema arriva da Latina, una delle aree ormai più ostili alla multinazionale attiva nella gestione dell'acqua e dei rifiuti. Qualche giorno fa il consiglio comunale della città laziale ha approvato a larga maggioranza una delibera che impone alla società Acqualatina, controllata da Veolia e partecipata da alcuni enti locali della zona, la restituzione della gestione del servizio idrico. Secondo l'azienda, tale atto non avrà però effetti sull'attività del gestore, che opera nel quadro normativo di riferimento nazionale e regionale. L'atteggiamento di Veolia è di apertura e collaborazione verso la pubblica amministrazione, ma non è facile immaginare quali risvolti possa avere la vicenda, anche perché, dopo l'approvazione del decreto Ronchi (che prevede tra le altre cose la privatizzazione della gestione dei servizi idrici), l'ostilità contro la gestione privata dell'acqua non ha fatto che montare in tutta Italia. Resta il fatto che Acqualatina è forte dei buoni risultati presentati di recente e relativi all'ultimo esercizio. Dopo anni di problemi e un 2008 molto difficile, durante il quale la società di revisione aveva messo in dubbio la stessa continuità aziendale, nel 2009 Acqualatina ha chiuso il bilancio con un utile di 1,3 milioni, rispetto alla perdita di 4,3 milioni registrata l'anno precedente. Il risultato, secondo l'azienda, è stato ottenuto grazie a un forte contenimento dei costi di produzione, ridotti di 4,2 milioni, e all'incremento del giro d'affari, cresciuto del 5,5%, di pari passo con l'aumento delle tariffe. Proprio i rincari delle tariffe e le presunte inefficienze nella gestione del servizio sono state alla base delle proteste di molti cittadini dell'Ato4 del Lazio. L'azienda si è data alcune priorità in merito agli interventi, la prima delle quali è stata individuata nella risoluzione dei problemi legati alla depurazione delle acque. Ma questa soluzione non ha accontentato tutti, come dimostra il fatto che lo scorso luglio, nell'ambito dell'approvazione del bilancio 2008, alcuni dei rappresentanti dei Comuni soci di Acqualatina hanno espresso voto contrario. Ma il peggio è che molti cittadini come forma di protesta hanno smesso da tempo di pagare le bollette. Per esempio, ad Aprilia, dove il consiglio comunale ha votato per la riappropriazione del Servizio idrico, ben 7 mila famiglie per cinque anni hanno versato gli importi delle bollette all'amministrazione pubblica invece che ad Acqualatina. Le attività legate alla riscossione proseguono, ma a questo punto non è facile immaginare come il socio Veolia potrà affrontare l'ostilità dei clienti e la presa di posizione dell'amministrazione pubblica. Purtroppo per i francesi, inoltre, quelle legate all'acqua e a Latina non sono le uniche grane da affrontare in Italia. In un altro settore, quello dei rifiuti, e in un'altra regione, la Calabria, Veolia sta infatti affrontando altri costosi problemi. Si tratta in questo caso della controllata TEC (Termo Energia Calabria), società che gestisce il ter-movalorizzatore di Gioia Tauro (Reggio Calabria) e che ancora non riesce a rimettere in sesto i conti a causa del mancato accordo con il commissario straordinario per l'emergenza rifiuti nella regione e con la stessa amministrazione. Qualche mese fa Veolia (che detiene 1*89% della società) ha dovuto mettere mano al portafoglio per ricapitalizzare la società, ma ricostituendolo a soli 9,6 milioni sui 28 previsti. Secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, adesso sarebbe necessario un nuovo aumento di capitale, di qualche decina di milioni di euro, che però i francesi sarebbero orientati a versare soltanto dopo aver raggiunto un accordo complessivo che permetta di rimettere in sesto la struttura finanziaria della società controllata.

Fonte: Milano Finanza
del 7.5.2010 

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mercoledì, 12 maggio 2010; 09:57



Da Giunta regionale sì a Ddl su costituzione azienda pubblica Acquedotto

Bari - (Adnkronos) - Strettamente funzionale alla garanzia del diritto fondamentale dell'acqua potabile, affermato dall'articolo 1, è la previsione contenuta nell'articolo 2 della configurazione del servizio idrico integrato come servizio privo di rilevanza economica affidato ad un organismo di diritto pubblico sottratto alle regole della concorrenza.
Bari, 11 mag. (Adnkronos) - La Giunta regionale della Puglia ha approvato il disegno di legge che punta a regolare il governo e la gestione del servizio idrico integrato e a costituire l'azienda pubblica regionale 'Acquedotto pugliese - Aqp'. Lo rendono noto il presidente Nichi Vendola e l'assessore alle Opere Pubbliche, Fabiano Amati. Il disegno di legge si compone di 15 articoli che stabiliscono i termini di governo e gestione del Servizio idrico attraverso la costituzione dell'azienda pubblica regionale che subentra all'Acquedotto pugliese spa.
In particolare, nella relazione illustrativa si sottolinea che ''la configurazione legislativo-amministrativa dell'Aqp e' di societa' per azioni a totale partecipazione pubblica; l'attuale assetto proprietario e' ripartito tra la Regione Puglia, 87% circa, e Regione Basilicata, 13% circa, anche se allo stato, con Deliberazione 521 del 23.02.2010 la Giunta Regionale, prendendo atto della valutazione della Societai' Ernst & Young, si e' impegnata ad acquisire le azioni detenute dalla Regione Basilicata non appena saranno reperite le somme necessarie, pari ad 12.200.000 euro''.
''Tale operazione - si scrive nel provvedimento - e' da considerarsi ovviamente necessaria per l'attuazione della presente legge''. Inoltre, la Giunta pugliese ha adeguato il disegno di legge alla recente decisione del Governo nazionale di sopprimere entro il termine di un anno gli Ato (ambiti territorali ottimali). Strettamente funzionale alla garanzia del diritto fondamentale dell'acqua potabile, affermato dall'articolo 1, e' la previsione contenuta nell'articolo 2 della configurazione del servizio idrico integrato come servizio privo di rilevanza economica affidato ad un organismo di diritto pubblico sottratto alle regole della concorrenza.




www.adnkronos.com


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mercoledì, 12 maggio 2010; 08:15


Stati Uniti, centrale nucleare perde trizio. Contaminata la falda che alimenta l’acquedotto 

Di nuovo alla ribalta una centrale nucleare che perde trizio negli Stati Uniti. Però il problema attorno all’impianto di Oyster Creek, nel New Jersey, è particolarmente grave: il trizio, che è radioattivo, ha raggiunto la falda sotterranea d’acqua da cui si alimenta l’acquedotto. 

Secondo fonti ufficiali, 27 delle 104 centrali nucleari statunitensi hanno avuto perdite di trizio, un isotopo dell’idrogeno. E’ un sottoprodotto delle reazioni nucleari. La sua presenza aumenta il rischio di cancro. 

La centrale nucleare di Oyster Creek è la più vecchia degli Stati Uniti: ha cominciato a funzionare nel 1969. 

Le perdite di trizio provenienti da una tubatura sono state scoperte nella primavera 2009, pochi giorni dopo che le autorità avevano accordato alla società Exelon, proprietaria dell’impianto, di prolungarne l’operatività fino al 2029. 

Ora il Dipartimento per l’Ambiente del New Jersey ha appurato che la Exelon non è riuscita a contenere la perdita. Il trizio continua a diffondersi sottoterra al ritmo di 30-90 centimetri circa al giorno, in direzione dei pozzi da cui proviene l’approvvigionamento dell’acqua. 

Di questo passo, il primo pozzo sarà contaminato fra 14 o 15 anni. 

Il Dipartimento per l’Ambiente ha ordinato alla Exelon di monitorare la perdita e di produrre un progetto per evitare la contaminazione dei pozzi. 

Fra le possibili contromisure: pompare l’acqua contaminata fuori dal sottosuolo, oppure iniettare altra acqua nella falda così da spingere quella contaminata lontano dai pozzi. 










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mercoledì, 12 maggio 2010; 08:14


Il Niger avvelenato dall’uranio e dalla follia nucleare occidentale 


L’estrazione di uranio dalle miniere di Areva, il gigante dell’energia nucleare, sta mettendo in serio pericolo la popolazione del Niger. Lo rivela un’inchiesta di Greenpeace International. Areva è la multinazionale francese leader mondiale dell’energia nucleare che detiene il brevetto dei reattore EPR (reattori europei ad acqua pressurizzata), quattro dei quali, secondo i piani del governo italiano, dovrebbero essere costruiti in Italia. 

Con il laboratorio francese indipendente CRIIRAD e la rete di ONG ROTAB, Greenpeace ha realizzato un monitoraggio di acqua, aria e terra intorno alle cittadine di Arlit e Akokan, a pochi chilometri dalle miniere di Areva, accertando “altissimi livelli di contaminazione” da radioattività. 

Areva, afferma Greenpeace nell’inchiesta, spinge per una nuova rivoluzione nucleare e, pur essendo operativa in oltre 100 Paesi nel mondo, tenta di estendersi verso nuovi mercati, convincendo governi, investitori e opinione pubblica che il nucleare è sicuro e pulito. Produrre energia nucleare richiede l’estrazione di uranio, attività – fa notare l’associazione ambientalista – “distruttiva e mortale”. L’estrazione dell’uranio, prosegue l’organizzazione, può avere “effetti catastrofici” sull’ambiente, per migliaia di anni, e sulle comunità che abitano vicino alle miniere. 

Tutto questo sta già avendo i suoi effetti in Niger, paese dell’Africa sahariana occidentale senza sbocco sul mare, molto povero, con gravi problemi sociali ed instabilità politica. Ma il Niger è ricco di risorse minerarie come l’uranio. Areva ha infatti cominciato ad interessarsi ai minerali del Niger 40 anni fa, “proponendo quest’attività come un salvataggio economico di una nazione depressa. Invece – si legge nel rapporto Greenpeace -, l’attività è stata in massima parte distruttiva. Le detonazioni e le trivellazioni in miniera causano enormi nuvole di polvere, montagne di rifiuti industriali e enormi mucchi di fango rimangono esposti all’aria aperta; lo spostamento di milioni di tonnellate di terra e roccia rischia di compromettere le sorgenti d’acqua sotterranee. Una gestione negligente del processo di estrazione può causare il rilascio di sostanze radioattive nell’aria, infiltrazioni nelle falde acquifere e contaminazione del terreno intorno alle città minerarie di Arlit e Akokan”. 

Ognuno di questi fattori causa danni permanenti all’ecosistema e alla popolazione locale. L’esposizione alla radioattività causa problemi respiratori, malattie congenite, leucemia e cancro. I tassi di mortalità legati a problemi respiratori nelle zone delle miniere sono il doppio di quelli del resto del Paese. Non solo. Greenpeace aggiunge che “Areva non si assume la responsabilità di eventuali impatti e che gli ospedali locali, controllati da questa stessa società, sono stati accusati di non aver diagnosticato molti casi di cancro”. Areva, prosegue l’organizzazione ambientalista, sostiene che nessun caso di cancro è attribuibile alle attività minerarie. L’agenzia governativa che dovrebbe monitorare o controllare le azioni di Areva è sottodimensionata e con scarsi fondi, si legge nel rapporto degli ambientalisti. 

Ma i risultati del monitoraggio di Greenpeace sono inquietanti: in 40 anni di attività, 270 miliardi di litri di acqua sono stati utilizzati nelle miniere, contaminando e impoverendo la falda acquifera. Saranno necessari milioni di anni per riportare la situazione allo stato iniziale. In quattro campioni di acqua su cinque raccolti nella regione di Arlit, la concentrazione di uranio è risultata al di sopra del limite raccomandato dall’OMS per l’acqua potabile. 

I dati indicano un graduale aumento della concentrazione di uranio negli ultimi 20 anni, compatibile con lo sfruttamento delle miniere. Alcuni dei campioni di acqua hanno mostrato anche quantità disciolte di radon radioattivo. Una misurazione del radon effettuato alla stazione delle forze di polizia a Akokan ha mostrato una concentrazione di radon nell’aria tra le 3 e le 7 volte superiore ai livelli considerati normali nella zona. Le frazioni di polveri sottili hanno mostrato un aumento della concentrazione di radioattività due o tre volte superiore a quello della frazione grossolana. L’aumento dei livelli di uranio in microparticelle comporta rischi molto maggiori di inalazione o ingestione. La concentrazione di uranio e di materiali radioattivi in un campione di suolo raccolto nei pressi della miniera sotterranea di Akokan è risultato circa 100 volte superiore ai livelli normali nella regione, e superiore ai limiti consentiti a livello internazionale. Per le strade di Akokan, la radioattività è risultata fino a quasi 500 volte superiore al fondo naturale. Una persona che passa meno di un’ora al giorno in quel luogo per un anno, potrebbe essere esposta ad un livello di radiazioni superiore al limite massimo consentito in un anno. 

Sebbene AREVA sostenga che nessun materiale contaminato provenga dalle miniere, Greenpeace ha trovato diversi scarti di metalli radioattivi al mercato di Arlit, con indice di radioattività pari fino a 50 volte i livelli normali. Gli abitanti del luogo usano questi materiali per costruire le case. Greenpeace ha pubblicato i primi (parziali) risultati della sua indagine a fine novembre 2009 ma, afferma, solo alcuni dei luoghi risultati radioattivi, in uno solo dei villaggi minerari, sono stati ripuliti. Greenpeace chiede uno studio indipendente intorno alle miniere e nelle città di Arlit e Akokan, seguito da una completa bonifica. Si chiedono inoltre controlli affinché Areva rispetti le normative internazionali di sicurezza e informi i propri lavoratori e la comunità sui rischi delle miniere di uranio. Molti abitanti in Niger non hanno mai sentito parlare di radioattività e non comprendono come l’estrazione di uranio possa essere pericolosa. Ogni giorno i nigeriani sono esposti a radiazioni, a rischio di malattie e povertà “mentre Areva guadagna miliardi sfruttando le loro risorse naturali. La popolazione del Niger merita di vivere in modo sicuro, pulito e in ambiente sano, e di partecipare agli utili della sfruttamento della sua terra”, conclude Greenpeace. Il Pianeta ha bisogno di una rivoluzione energetica basata sullo sviluppo sostenibile, conveniente e sicuro, delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. 



 

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martedì, 11 maggio 2010; 07:31


Acqua. La legge Ronchi vale 2 miliardi 


Oltre due miliardi di euro. Tanto valgono nel complesso i pacchetti azionari delle prime cinque multi-utilities italiane che, per effetto del decretoRonchi, dovrebbero essere messi sul mercato e ceduti ai privati da parte dei comuni azionisti. Parecchi soldi, insomma, anche ai prezzi depressi di oggi, e senza considerare nessun eventuale premio per blocchi di azioni in grado di favorire il controllo da parte degli acquirenti.
In particolare, la prima scadenza fissata al 30 giugno del 2013 che impone a tutti gli enti pubblici di scendere sotto il 40% del capitale delle società che gestiscono servizi pubblici essenziali, richiederebbe subito al "mercato" di mobilitare risorse teoriche per oltre un miliardo.
Ed è probabile che le trattative per il primo pacchetto "obbligato" finirebbero col definire la tendenza per gli assetti anche per il secondo blocco, imposto dalla Ronchi.
Tre anni per trattative complesse e in un settore delicato e «sensibile» come quello dei servizi alla cittadinanza non sono poi così lunghi, tanto pi in un momento in cui liquidità e leva bancaria sono risorse piuttosto scarse. D'altro canto, poi, gli obblighi di cedere partecipazioni di controllo imposti dallaRonchi potrebbero in realtà costituire un'opportunità per molti Comuni azionisti di controllo. Abrogazione dell'Ici, patto di stabilità, dividendi sempre pi magri e una finanza pubblica gestita con rigore invocano compensazioni da mettere a bilancio: e due miliardi in cinque anni da «distribuire» tra Milano, Roma, Torino, Genova, Bologna e altre possono davvero fare comodo.

La raccolta di firme
Gli anni che mancano alla privatizzazione sono dunque pochi rispetto alla complessità delle questioni da affrontare, ma la via resta tortuosa. Da un lato, procede con qualche fatica il cammino dei decreti attuativi che dovranno portare la legge Ronchi dalla carta alla pratica. Il primo è stato esaminato nei giorni scorsi dalla Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti Locali, e ora tornerà in Consiglio dei ministri. Cinque regioni, peraltro, hanno già presentato ricorso alla Corte costituzionale.
D'altro canto, poi, i promotori della campagna referendaria lanciata lo scorso 25 aprile annunciano di aver già raccolto oltre 250 mila firme. La metà di quel che serve per depositare i quesiti e attendere il responso di Cassazione e Corte costituzionale. Il movimento referendario contesta anzitutto la «necessarietà» comunitaria della normativa italiana, essendo il rimando al livello europeo del tutto generico: normative e sentenze comunitarie, solitamente richiamate con precisioni nelle leggi nazionali che ne danno attuazione, qui mancano del tutto.
La proposta referendaria punta a una complessiva «ripubblicizzazione'> dei servizi idrici idriche e della loro gestione, mirando ad abrogare non solo le novità normative introdotte dalla Ronchi, ma tutto l’impianto legislativo che ha costruito il processo di privatizzazione, tanto arrivare da individuare nelle aziende speciali di natura pubblica il soggetto destinato ad «ereditare>’ la gestione in caso di successo dell’iniziativa popolare.

I piani dell'ANCI
Intanto, all’Associazione nazionale dei comuni Italiani continuano a sondare l’ipotesi che non sarebbe sgradita a Giulio Tremonti di un fondo a partecipazione pubblica controllato da una società di gestione del risparmio che rilevi le quote delle municipalizzate messe sul mercato dalla Legge Ronchi. L’idea dovrebbe essere presentata entro la fine di maggio ai sindaci delle città riguardate dalla riforma, per capire se i potenziali venditori sono interessati a procedere in questa direzione.
A parlare per primo di una soluzione alternativa per "la questione dell'acqua" è stato alcune settimane fa il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Nella "sua" ACEA i rapporti con i francesi di Suez-GdF, saliti di recente oltre il 10%, restano tesissimi, mentre il secondo azionista dopo il comune è Francesco Gaetano Caltagirone.
Le sue motivazioni a radicarsi nel segmento delle utilities sono diventate sempre più forti ed esplicite, negli anni.
Jacopo Tondelli
Il Corriere della Sera Economia
lunedì 10 maggio 2010, pagina 14

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martedì, 11 maggio 2010; 07:20




L’obiettivo, comune a quello del sindaco Gianni Alemanno, è di far uscire Gas de France dall’azionariato.
Ma il gruppo transalpino è pronto a dare battaglia. Intanto peggiorano i conti: debiti da 1,6 a 2,2
miliardi e 186 miliardi di euro di passivo
Tra i due litiganti Acea muore. Non sono bastati 16 mesi di negoziati e il rinnovo di un consiglio di amministrazione per far uscire la municipalizzata romana dallo stallo creato dalla contrapposizione tra i due azionisti privati: Francesco Gaetano Caltagirone e Cdf Suez.
Nel frattempo Acea ha chiuso uno dei bilanci peggiori della sua storia di società quotata, con l'utile 2008 (186 milioni) trasformatosi nel 2009 in una perdita di 52 milioni. E con l'indebitamento schizzato da 1,6 a 2,2 miliardi. Nello stesso periodo intercorso tra le due assemblee degli azionisti il titolo ha perso il 21%. Ancora più fosco il quadro se si guarda al futuro, che avrà uno snodo importante proprio questa settimana quando il nuovo cda, guidato dai confermati Giancarlo Cremonesi alla presidenza e Marco Staderini quale ad, avrà ancora una volta la possibilità di decidere se l'unica strada per risolvere il problema coni soci francesi sia quello di affidarsi ad un collegio di arbitri a Ginevra.

Ma l'analisi dei conti 2009 e le indiscrezioni sull'andamento del primo trimestre di quest'anno, anch'esso sul tavolo del cda di venerdì, dicono che il divorzio con i soci industriali Gdf Suez, voluto con forza dal Comune, primo azionista al 51%, e da Caltagirone, non sarà la soluzione a tutti i problemi. I1 crollo dei consumi elettrici e dei prezzi del Kwh hanno affossato tutti i bilanci delle municipalizzate italiane, ma per Acea il conto è stato più salato proprio a causa delle difficoltà interne: nei 186 milioni di euro di passivo ce ne sono 7 di buonuscita cumulate per liquidare il vecchio ad Andrea Mangoni e gli altri manager che lo hanno seguito.

La vecchia gestione era responsabile, secondo il sindaco Gianni Alemanno e il suo alleato Caltagirone, di aver negoziato un accordo troppo favorevole ai francesi. La lunga e infruttuosa trattativa che ne è seguita per trovare una nuova intesa ha fatto felici solo le numerose banche d'affari coinvolte e i professionisti, mentre i costi della capo gruppo Acea sono aumentati di ben 30 milioni. Naturalmente il forte passivo e l'assenza del dividendo sono diventati ulteriore oggetto di accuse tra i soci. L'immobiliarista romano ha puntato il dito contro le joint venture che Acea e Gdf Suez hanno nella produzione e nella distribuzione dell'elettricità: «Siamo assolutamente scontenti delle Jv, il business dell'energia contribuisce solamente al 12% dell'utile di Acea pur avendo un fatturato pari a più del doppio di quello dell'acqua - ha dichiarato Caltagirone - quello che noi vogliamo è rigore e investimenti fatti bene e al momento giusto». In realtà l'elettricità è affidata a due società, una si occupa della produzione, gestita da Gdf, e un'altra della distribuzione, gestita da Acea.

Dei 25 milioni di passivo (dopo anni di utili) la produzione ne ha persi 10, la distribuzione 15, anche perché quest'ultima ha cambiato tre amministratori delegati in un anno. Caltagirone è sembrato più entusiasta del segmento dei servizi idrici (dove Acea è il più grande operatore in Italia con oltre 4 milioni di clienti nel Lazio, Toscana e Campania), in realtà i costi sono aumentati anche in quel settore, compensati da un aumento delle tariffe. Ma proprio il tasto degli investimenti sarà ulteriore motivo di scontro, perché i 600 milioni di maggiori debiti nascono da un'accelerazione del programma di spese di ben l00 milioni nel 2009 rispetto al 2008. In pratica mentre tutte le aziende, di fronte al crollo dei fatturati, hanno ridotto gli investimenti, tagliato su costi correnti e personale, Acea ha fatto il contrario accelerando i pagamenti ai fornitori e mettendo mano anche ai progetti meno urgenti. La probabile spiegazione è che la municipalizzata sia stata utilizzata come un improprio ammortizzatore verso l'economia della capitale. Una decisione che può far felice il sindaco, ma non gli altri soci Acea.

Anche à questo probabilmente si riferiva lo stesso Caltagirone quando ha chiesto di tenere la politica fuori dalla gestione ha denunciato: «il fatto che Acea sia stata per anni pubblica e che sia adesso per metà pubblica ha creato delle cattive abitudini ed ora c'è bisogno di un'iniezione di cultura privata». Per anche le nomine di Cremonesi e Staderini hanno natura politica, così come dalla politica arrivano le ipotesi di integrazione con altre municipalizzate. Persino l'accordo “di minima”, tra Suez e il sindaco Alemanno di trovare un direttore. generale forte e con una larga competenza nel settore non è stato rispettato. La maggioranza targata Pdl che ha conquistato il Campidoglio sembrava avere le idee chiare su Acea: rapida privatizzazione a favore di “esponenti dell'economia del territorio”. Quella determinazione è un po’ scemata, l'ipotesi di usare il decreto Ronchi sulla privatizzazione della gestione degli acquedotti, per scendere sotto il 30% di tutta l'Acea si sta rivelando politicamente impervia. Comunque tutti gli scenari sembrano escludere la presenza di Gdf-Suez nel futuro della società.

I francesi però non si sono dimostrati disposti a lasciare e hanno ribattuto ai continui acquisti di Caltagirone pareggiano le quote sopra al 10%. Nei palazzi della capitale si dibatte sulla possibilità che i francesi accettino una lunga battaglia, legale, politica, finanziaria e mediatica o finiscano per abbandonare. Acea rimane al momento un caposaldo della strategia del presidente Gerard Mestrallet di diventare il secondo operatore nel gas e il terzo nell'elettricità in Italia. Il direttore generale di Suez-Gdf Italia Stefano Chiarini ha dichiarato che crescerà «con o senza Acea» ma ha ostentato la serenità di chi ha un gruppo miliardario alle spalle. Il suo mandato è difendere 7 miliardi di asset posseduti da Gdf Suez nel nostro paese acquistati con un ottica di lungo periodo. Lo dimostra la vicenda dell'arbitrato: agitata dall'ad Staderini come “la pistola carica” per risolvere la controversia con i francesi e dividere le proprie strade. Ora lo stesso ad sembra riluttante a impugnarla: significherebbe bloccare la società per almeno 18 mesi e l'esito sarebbe incerto.

I legali romani hanno già chiarito la strategia: Gdf-Suez deve pagare per aver violato l'accordo di esclusiva firmato nel 2002 tra Acea e Electrabel. Il contratto prevedeva che tutte le iniziative di crescita in Italia intraprese dai francesi venissero sottoposte in opzione anche ad Acea. I danni prodotti da questa violazione varrebbero fino ad un miliardo di euro. Ma anche Gdf Suez è pronta a ribattere che l'opzione è stata concessa nell'ambito dell'accordo generale ripudiato l'anno scorso e che invece il lungo tira e molla con i vertici di piazzale Ostiense ha bloccato la campagna italiana, Anche questi danni saranno quantificati e saranno presentati al collegio arbitrale. La pistola di Staderini potrebbe quindi essere utilizzata per una pericolosa roulette russa, anche perché l'avvio della richiesta dell'arbitrato decisa dal cda di Acea annullerebbe ogni ipotesi di accordo.

Peraltro i negoziatori di entrambe le parti hanno interrotto i contatti da un mese e mezzo e i rapporti sembrano ormai troppo deteriorati. La vera sfida di Staderini è dimostrare dl poter tenere sotto controllo i costi: se infatti Acea vedesse crescere perdite e debito, l'esito dell'arbitrato negativo sarebbe il colpo di grazia. Per il sindaco, a quel punto esposto alle accuse di aver affossato e svenduto la società, sarebbe un duro colpo. E per Caltagirone il peggiore dei risultati: perdere denaro in un'operazione di potere.

LUCA IEZZI, LA REPUBBLICA – AFFARI & FINANZA



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lunedì, 10 maggio 2010; 16:27



Il PD e la battaglia sull'acqua 

 di Ugo Mattei

Oggi si può contribuire a invertire la rotta per fermare il saccheggio dei beni comuni andando a firmare i tre referendum sull' acqua. Lo hanno capito in tantissimi accalcati ogni giorno ai banchetti di raccolta firme. Il movimento referendario intorno all'acqua "bene comune" costituisce il più entusiasmante segnale di vitalità politica da molto tempo a questa parte. Lo hanno capito centinaia di migliaia di persone, pur frastornate dalle imitazioni fasulle come il referendum dell' Idv o la petizione del Pd che "il meglio è nemico del bene", soprattutto quando a proporre soluzioni migliori rispetto ai tre referendum è chi per anni non ha fatto nulla di concreto per fermare la deriva liberista, la privatizzazione, il saccheggio in cui il nostro paese si è abbandonato. A partire dalla "fine della storia" e dal collasso della prima repubblica. 
La battaglia referendaria sull' acqua come bene comune, è oggi una civilissima epifania italiana di un violento scontro globale prodotto da una nuova grande trasformazione che, come quella descritta da Polanyi agli albori della modernità, cerca sempre più di concentrare nelle mani di pochi la ricchezza di tutti. Intorno ai nostri banchetti si sta svolgendo la battaglia antropologica fra la persona, dotata di diritti e doveri costituzionali, e l'homo oeconomicus, furbo, speculatore, irresponsabile e pronto a tutto pur di arricchirsi ancora un po'. Una battaglia furibonda che, in una diversa e più drammatica declinazione, abbiamo visto in questi giorni nelle piazze di Atene. Da una parte comunità di persone in carne ed ossa, portatrici di diritti e di preoccupazioni politiche e culturali che affondano le radici nel passato e gettano ponti verso il futuro. Dall'altra le corporation, realizzazione mostruosa dell' homo oeconomicus, che massimizzano il profitto di brevissimo termine senza scrupoli né preoccupazioni per il bene comune, per la storia, per la natura, per la stessa sopravvivenza. 
E' la battaglia dell' interesse privato contro il bene comune, qualcosa di ben più grande e ben diversamente complesso rispetto alla riduzione, utilizzata da tanti politici in Italia ed Europa, dell' economia e della finanza contro la politica. Lo scontro è quello fra una retorica bipartisan sulla crescita, lo sviluppo, l'efficienza, la meritocrazia, che altro non è che arbitrio dei Consigli di Amministrazione e una realtà di lavoratori di migranti di persone ordinarie sempre più soccombenti e spremute da processi sociali determinati solo dal profitto. Quasi sempre politica e capitale finanziario stanno dalla stessa parte, che non è quella delle persone. 
In questa battaglia non è ammesso non schierarsi, perché la scelta è tra aprire la via a nuovi modelli di governo democratico ed ecologico dell' economia o rilegittimare il modello dominante in crisi e collocarsi così dalla parte del capitale anziché delle persone e delle comunità. 
Caro senatore Della Seta, cercare di delegittimare come "schematiche" le posizioni chiare e oneste di quanti dicono «solo chi firma i tre referendum vuole l' acqua bene comune», costituisce una strategia che non sta dalla parte delle persone e dei loro bisogni ma da quella dei Consigli di Amministrazione e del chiacchiericcio da super-vertici tecnocratici. Suvvia! Ha firmato perfino Franceschini!
Oggi, dopo vent'anni, siamo finalmente giunti alla fine della fine della storia. Le code ai banchetti referendari in Italia, come i lavoratori disperati nelle piazze in Grecia, dicono al mondo che bisogna invertire la rotta.

www.ilmanifesto.it

claudiomeloni; ; commenti ?


domenica, 09 maggio 2010; 06:47


Tutti insieme per l'acqua

di Emilio Molinari

Che senso ha? Non c'è intendimento polemico in questa 
domanda, solo mi chiedo qual è il senso che i dirigenti 
del Pd attribuiscono alla raccolta di firme che intendono 
promuovere per una legge sui servizi idrici da presentare 
al Parlamento, mentre in tutto il paese è in pieno svolgimento 
un referendum abrogativo delle leggi che obbligano 
alla privatizzazione di tali servizi e mentre elettori e militanti 
dello stesso Pd accorrono ai banchetti del Movimento dell'acqua 
per apporre la loro firma. Credo risulti incomprensibile a 
molti l'idea di raccogliere firme su di una legge di iniziativa 
popolare, dal momento che anche molti quadri intermedi e 
dirigenti locali del Pd firmano per il referendum e si rendono 
disponibili alla sua riuscita; che molti sindaci aderiscono all'iniziativa, 
votano in centinaia ordini del giorno che dichiarano l'acqua 
priva di rilevanza economica; che lo stesso comune 
di Milano si pronuncia per l'acqua in mano pubblica 
e un po' ovunque consiglieri comunali del Pd si offrono 
come autenticatori delle firme per il referendum sull’acqua pubblica, 
coscienti anche di assolvere a un obbligo democratico. Non 
ha alcun senso confondere e dividere i cittadini con diverse iniziative, se 
anche un dirigente del calibro di Dario Franceschini firma i nostri quesiti referendari. 
Che senso ha in un simile contesto presentare una 
legge quando, oltretutto, non ci sono i numeri in Parlamento? 
Non c'erano, i numeri, neppure quando fu votata la legge Ronchi 
che prevede la privatizzazione dell’acqua, altrimenti sarebbe 
stata cambiata o bloccata. E meno che mai ci sono adesso. 
C’è invece uno straordinario entusiasmo nell’adesione al 
referendum contro la privatizzazione dell’acqua. E la spiegazione 
credo stia proprio nella consapevolezza di molta parte 
del popolo di centrosinistra di essere condannato dai “numer i 
che non ci sono”, ma salvato dalla certezza che l'acqua abbia 
una tale forza evocativa capace di parlare a tutti, anche agli 
avversari. L'acqua entra trasversalmente in entrambi i “po - 
poli politici” che si fronteggiano, rompe gli schieramenti 
ossificati in poli incomunicabili nei loro odi reciproci, produce 
cultura del vivere assieme e dell'interesse generale. 
Questo comincia a essere senso comune. Credo che tutti 
sentano il bisogno di riprendersi l'iniziativa fuori dal Parlamento 
e che vivano il referendum come un sentimento di 
rivincita sui numeri, per partecipare e fare politica personalmente 
e su contenuti. Credo che lo vivano come una possibilità 
di vincere qualcosa di importante, che qualifichi il 
senso della loro militanza e anche della loro adesione a un 
partito come il Pd. Perché allora confondere questa stupenda 
realtà e opportunità che si offre a tutti, con un’i n i z i a t i va 
che non serve a nulla? I numeri in Parlamento non ci sono, in 
Parlamento già giace ignorata da tutti una legge di iniziativa 
popolare presentata dal Movimento dell'acqua e corredata 
da oltre 400 mila firme. Non ci sono nemmeno i tempi per 
discutere una qualsiasi legge, perché entro il 2011 sarà fatto 
obbligo a tutti i comuni di mettere a gara la gestione dei propri 
servizi idrici e i privati entreranno con convenzioni della 
durata di 25-30 anni, determinando così una condizione in 
cui sarà difficile tornare indietro. Il referendum perciò non è 
un espediente politico di qualcuno, ma è un passaggio obbligato 
per tutti coloro che non vogliono che i rubinetti italiani 
vengano consegnati a un paio di multinazionali e alle 
banche. I dirigenti del Pd sono giustamente preoccupati di 
come è stato ridotto lo strumento del referendum nel nostro 
paese. Lo siamo anche noi, ma cerchiamo di dare una risposta 
a tre questioni: c'è qualche altro strumento per fermare 
una legge incostituzionale che espropria i comuni del 
proprio ruolo, unica nel suo genere in tutta Europa? Abbiamo 
proprio deciso di rinunciare definitivamente al referendum, 
l'unico strumento costituzionale di democrazia partecipata 
di cui dispongono i cittadini italiani? Se è così, non è 
una parte del centrosinistra che rinuncia e liquida pezzi di 
Costituzione? Cari dirigenti del Pd, c’è una cosa che ci può 
permettere di dialogare e trovare soluzioni che evitino confusioni 
e amarezze nel popolo di centrosinistra e che vi faccia 
evitare di essere scavalcati dal vostro stesso popolo, che 
sta trovando in questo momento un nuovo entusiasmo. Se 
davvero il vostro intento è quello di cambiare la legge, perché 
non raccogliere assieme a noi un milione di firme abrogative 
della legge Ronchi? Perché non depositarle insieme, 
con una forza reale, sul tavolo del governo per costringerlo 
all'ineludibile scelta tra cambiare la legge, accogliendo lo 
spirito dei referendari, o indire il referendum? L'acqua, l'acqua 
potabile, non è per noi un argomento strumentale da 
usare per la polemica tra partiti o per interesse di partito. 
Bisogna crederci e sbaglia chi, come l'Idv, la usa in tal senso 
correndo da solo e raccogliendo in solitudine le firme per un 
suo referendum abrogativo. L'acqua è prima di tutto un diritto 
umano che ci chiama all'etica della politica, ci chiama a 
una battaglia di tutti e per tutti, anche per gli avversari politici. 
Non è una battaglia nell'interesse di classe, di genere, di 
partito o di ideologia, è nell'interesse generale più profondo 
e in questo è l'essenza della politica. Lo ha capito la miriade 
di cittadini, di sindaci, di elettori, di militanti che si mettono 
in fila ai banchetti. Credo ci chiedano tutti di confrontarci e 
unire gli sforzi e che in loro ci sia una domanda di politica: di 
politica potabile, come l'acqua del rubinetto. 

(*) Comitato italiano per un contratto mondiale sull'acqua 

8 MAGGIO 2010-il FATTO QUOTIDIANO 

VA

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