domenica 15 gennaio 2012



IL DRAMMA DEL DISTACCO DELL'ACQUA



A Roma ACEA, per pasticci amministrativi propri o, nella maggior parte dei 
casi, per morosità degli utenti, ha proceduto a migliaia di distacchi dell'erogazione
(pare siano 70.000). A parte gli errori dell'ACEA pasticciona e i casi
giustificati (per esempio, case abbandonate per le quali nessuno ha già pagato
la bolletta, nomadi, eccetera), per le famiglie normali i distacchi dovrebbero
essere vietati perché non hanno alternative alla mancanza dell'acqua potabile,
che è praticamente una tragedia. A ciò si aggiunga che spesso le famiglie sono
incolpevoli perché in Italia la bolletta dell'acqua è ancora condominiale,
ripartita secondo criteri discutibili come la superficie dell'appartamento o in
parti uguali (solo raramente in modo più razionale, secondo il numero dei componenti della famiglia).
Dipende dal regolamento condominiale e a volte questi criteri sono misti. Molte
lamentele derivano poi da fatture esorbitanti, ma talvolta succede che si rompe
la conduttura a valle del contatore, per cui l'acqua finisce sotto terra e
arriva una bolletta stratosferica. Siccome non esiste ancora una Autorità
dell'acqua, come per l'elettricità, il gas e le telecomunicazioni, non si sa
ogni quanto devono essere letti i contatori, ogni azienda acquedottistica fa
come gli pare, per cui l'utente non sa che c'è una perdita che gonfia
smisuratamente la bolletta e ne nascono liti e rifiuti di pagare. In verità il
DPR 29/4/1999 (in Gazzetta Ufficiale dell'1/6/1999) aveva previsto che la
lettura deve essere effettuata almeno due volte l'anno, ma le aziende
acquedottistiche fanno orecchie da mercante. Quindi la morosità può essere dovuta
a motivazioni valide e l'azienda acquedottistica, invece del distacco, ha a
disposizione i normali strumenti giuridici di recupero del credito previsti dal
Codice civile. Al distacco del gas si può rimediare con una bombola e, al
limite, a quello dell'energia elettrica con un generatore di corrente, ma senza
acqua non c'è niente da fare.


Per quanto riguarda le tariffe, dal 1 gennaio scorso sono state liberalizzate in base a
una delibera del CIPE, ma sono una babele e, ancora una volta, le aziende
acquedottistiche fanno quello che gli pare. Ancora si attende il decreto del
Ministero dell'Ambiente previsto dall'art. 154 del decreto legislativo n.
152/2006 (Codice ambientale) che deve stabilire le componenti di costo per la
determinazione delle tariffe dell'acqua, ora chiamate tariffe del servizio
idrico integrato, tanto per far capire agli utenti che con questo pomposo
cambiamento del nome devono pagare di più. Mentre la delibera del CIPE n.
52/2001 ha introdotto la possibilità di un aumento astronomico della quota
fissa, prima chiamata nolo contatore; (c'è chi paga 20 euro al mese), le
collegate tariffe di fognatura e depurazione, prima chiamate tasse; (con il
cambiamento del nome, che è sempre una fregatura per gli utenti, sono ora
assoggettate all'IVA del 10%), sono state nel tempo oggetto di un guazzabuglio
di norme e vengono addebitate illegalmente anche ove non c'è una rete di
fognatura e tanto meno il depuratore. La vera e propria tariffa dell'acqua è,
se possibile, un guazzabuglio ancora più intricato che dura da oltre mezzo
secolo, ovvero da quando era di competenza del defunto Comitato
interministeriale prezzi (CIP) e degli altrettanto defunti Comitati provinciali
prezzi (CPP). Una lamentela perenne dei consumatori è la fatturazione di un
consumo minimo dell'acqua. Le aziende acquedottistiche mandano bollette
addebitando comunque un consumo minimo che va, secondo le zone, da 40 e fino
addirittura a 200 metri cubi annui, indipendentemente dal fatto che sia stata
consumata tale quantità di acqua e anche se l’utente non ha consumato nemmeno
un litro. Chiaramente, la lamentela viene soprattutto da chi possiede residenze
secondarie abitate per poco tempo l'anno o da utenti che vivono soli e
consumano poca acqua.


La possibilità di fatturare un quantitativo minimo, anche se non consumato, era stata prevista
dal provvedimento CIP n. 26/1975. Un motivo era e derivava dal fatto che
l'acqua costava molto poco e con il ricavato non si potevano mandare in giro i
 letturisti a leggere i contatori e contabilizzare poi i consumi effettivi, con
costi di personale e amministrativi tali da far saltare i bilanci delle aziende
acquedottistiche comunali. Del resto, anche per  il prezzo del
quantitativo minimo era quasi un'inezia.


Le aziende furono leste ad inserire il quantitativo minimo nei contratti, che variava
secondo le delibere dei vari Comitati provinciali prezzi (CPP), ma in genere
era di 90 metri cubi l'anno, corrispondenti mediamente al bisogno di una persona sola. 
Con gli anni poi, il prezzo dell'acqua aumentò e vi si aggiunsero la tassa di fognatura e
quella di depurazione, pagate sempre sul quantitativo minimo anche da chi non
lo consumava, per cui molti utenti cominciarono a essere scontenti.


Con il decreto legislativo n. 152/2006 (Codice ambientale) la situazione si è ingarbugliata
ancora di più perché, come si è detto, fra gli altri adempimenti normativi deve
ancora uscire un decreto ministeriale per stabilire non più la tariffa di
riferimento, ma i componenti di costo ai fini della fissazione della tariffa.
Anche questo cambiamento di nome prelude a qualcosa di spiacevole. Frattanto,
con tutte queste giravolte normative nessuno è in grado di dire con precisione
se il quantitativo minimo è ancora fatturabile. Quel che si può affermare con
certezza però è che ad andarci di mezzo è sempre la trasparenza e l'economicità
del servizio, quindi in ultima analisi l'nteresse del consumatore. (S.G.)

Unione Nazionale Consumatori Emilia Romagna
www.consumatori-emiliaromagna.it
settembre 2008

Nessun commento:

Posta un commento