Per combattere la scarsità
L'acqua, una possibilità di pace per il Medioriente
La prossima grande guerra sarà forse quella dell'acqua? L'aumento del consumo e il drammatico abbassamento delle riserve inducono i paesi a ripensare le loro ricchezze e il loro sviluppo in funzione dell'"oro blu" che possiedono e a contrattare la suddivisione dei fiumi all'interno di un grande mercato mediorientale. Penosa mancanza di fantasia: la rarefazione dell'acqua potabile non ha nulla di inesorabile. Un progetto internazionale per la dissalazione del mare Mediterraneo potrebbe inoltre essere fattore di pace.
Su scala planetaria, il consumo di acqua potabile raddoppia ogni vent'anni. E' quanto ha dichiarato il presidente Jacques Chirac in occasione della conferenza riunita su sua iniziativa a Parigi dal 19 al 21 marzo 1998. Di questo passo, nel 2000, in Africa le riserve saranno ridotte a un quarto del livello di mezzo secolo fa, a un terzo in Asia e in America latina. In altre parole, la penuria d'acqua sta per diventare un dei primi e più importanti fattori di futuri conflitti. La situazione è particolarmente grave in Medioriente, una regione in gran parte desertica, afflitta dalla penuria d'acqua fin dai tempi della Bibbia, ma la cui crisi, in seguito al massiccio prelievo di acque sotterranee, ha ormai raggiunto livelli mai toccati. Questa conferenza che inaugura nella storia dell'umanità l'era della lotta contro la scarsità d'acqua, potrà servire anche a lanciare in Medioriente un progetto ecologico-politico rivoluzionario degno del XXI secolo? Dal punto di vista ecologico, si tratterebbe di utilizzare l'energia solare per assicurare l'evaporazione dell'acqua del Mediterraneo (e forse anche quella del mar Rosso) poi di fare dell'acqua di mare così dissalata un elemento chiave che, grazie all'agronomia genetica, potrebbe trasformare i deserti in terreni fertili, dall'Atlantico all'Iran. Per riapprovvigionare i due mari, occorrerebbe probabilmente allargare gli stretti di Gibilterra e di Bab el Mandeb. Un progetto grandioso che inaugurerebbe l'era dell'ecologia e dello sfruttamento della geografia da parte dell'uomo a proprio vantaggio. Una tale impresa presuppone, naturalmente, l'invenzione di un sistema economicamente competitivo di dissalazione dell'acqua i cui costi attuali restano esorbitanti. Soltanto i paesi del Golfo hanno potuto, grazie alla manna del petrolio, avvalersi delle tecnologie in uso, del resto ancora molto imperfette. Ma per attuare un progetto di tali dimensioni è indispensabile un abbassamento drastico dei costi. Mentre Pathfinder esplora il suolo di Marte e cloniamo la pecora Dolly, è ridicolo che non siamo ancora in grado di separare a basso costo i sali dall'acqua di mare. Perché l'energia solare e non l'energia nucleare? In primo luogo, perché l'energia solare non comporta i pericoli militari inerenti a ogni utilizzazione, anche pacifica, dell'energia nucleare. Poi, perché i deserti del sud del Mediterraneo e della penisola arabica si prestano in maniera ideale alla cattura dell'energia solare. Secondo esperti del ministero egiziano per l'elettricità, basterebbe installare tre file di specchi concavi da Casablanca (Marocco) a Rafah (ai confini del Sinai) per catturare una quantità di energia solare corrispondente a quattro volte l'attuale consumo europeo di energia elettrica. La maggior parte di questa energia potrebbe essere destinata alla dissalazione dell'acqua di mare. Le installazioni necessarie, interposte tra paesi nemici nella regione e non solo fra arabi e israeliani potrebbero costituire un'alternativa, pacifica e costruttiva, al pericolo di propagazione delle armi nucleari. Di più, potrebbero essere un primo passo verso la progressiva denuclearizzazione dell'intera regione. Perché puntare sulla dissalazione dell'acqua di mare piuttosto che sulla ridistribuzione delle acque disponibili nei paesi della regione? La domanda è tanto più legittima in quanto la ridistribuzione, lungi dal dipendere da una scoperta scientifica ancora aleatoria, poggerebbe su realtà geografiche concrete: la Turchia, ad esempio, rappresenta per il Medioriente un vero e proprio serbatoio d'acqua. Infatti, Ankara ha proposto, dieci anni fa, un"acquedotto della pace"; si trattava di deviare l'acqua di due fiumi turchi, il Ceyhan e il Seyan che scendono dai pendii anatolici e sfociano direttamente nel Mediterraneo per portarla fino a Jeddah e alla Mecca da un lato, fino agli Emirati arabi uniti dall'altro. Con una spesa dai dodici ai venti miliardi di dollari, la Turchia potrebbe fornire due miliardi di metri cubi d'acqua all'anno ossia sei milioni di metri cubi al giorno all'intera penisola arabica, attraverso la Siria, la Giordania e l'Iraq. Oro nero contro oro blu In realtà, questo progetto equivarrebbe a scambiare l'oro nero, nei paesi dove abbonda, contro l'"oro blu" di cui gli stessi paesi sono quasi sprovvisti. Ma la suddivisione fra stati sovrani di ricchezze valutate con criteri diversi e relativi, è sempre stata molto delicata in Medioriente come ha dimostrato, ancora di recente, il contenzioso petrolifero fra l'Iraq e le monarchie del Golfo, che fu all'origine dell'invasione del Kuwait nel 1990. Tuttavia, questa problematica regionale va collocata nel quadro più generale della penuria d'acqua su scala planetaria. In ultima analisi, la questione, lungamente dibattuta alla conferenza di Parigi, di sapere chi, dei due protagonisti principali, l'uomo o l'acqua, deve piegarsi all'altro. E' l'uomo a doversi adattare alle condizioni, sempre più vincolanti, dell'utilizzazione dell'acqua, o è l'acqua che deve sottostare alle esigenze sempre crescenti dell'uomo? A Parigi, la comunità internazionale si è complessivamente pronunciata a favore della prima soluzione: occorre ottimizzare l'utilizzo dell'acqua potabile disponibile, smetterla con gli sprechi, e forse far pagare l'acqua. Sorge una domanda di natura tecnica: in quale misura l'acqua dolce è"elastica"? Si può accrescerne la quantità in maniera rilevante mantenendola a prezzi non proibitivi? Si può considerare il sale marino come una forma d'inquinamento naturale la cui eliminazione è possibile, prima di concepirla come necessaria? Certo, la separazione del sale dall'acqua non pone problemi. Difficile appare invece, dopo la separazione, trattenere l'acqua piuttosto che il sale. Da un lato, il tentativo di individuare nuove fonti di acqua potabile non dovrebbe impedire la messa in opera di progetti, perfettamente attuabili, in grado di razionalizzare l'uso dell'"oro blu" nell'ambito delle tecnologie esistenti. Ma, dall'altro, non possiamo accontentarci di gestire la crisi, rinunciando all'ambizione di porre fine, definitivamente, alla penuria d'acqua. Quanto alla tariffazione presenta anch'essa delle difficoltà, soprattutto nei paesi del Sud per i quali costituisce un onere supplementare. Perciò questi paesi tendono a invocare la propria sovranità per respingere il principio della tariffazione. L'aria, così come l'acqua, è sempre stata percepita come un dono di Dio o della natura. Ciò è particolarmente vero per l'Egitto, paese che il suo conquistatore arabo Amr Ibn El Ass, dodici secoli orsono, chiamò"dono del Nilo". In linea di principio, grazie all'irrigazione, le società idrauliche o lo stato assicurano una equa ripartizione dell'acqua, fondandosi sul diritto imprescrittibile di ogni cittadino ad accedervi gratuitamente.
Ma ecco che il presidente Chirac annuncia, alla conferenza di Parigi, che"l'acqua ha un prezzo" e che occorre porre termine"alle opposizioni sterili fra mercato e stato, fra gratuità e tariffazione, fra sovranità sulle risorse e necessaria solidarietà".
Questo modo di affrontare il problema urta le suscettibilità dei paesi del Sud. Nel suo discorso di chiusura della conferenza, il primo ministro francese, Lionel Jospin, è stato più sfumato:"Voi avete rinunciato a una vecchia credenza, troppo a lungo diffusa, secondo la quale l'acqua, dono del cielo, non poteva non essere gratuita. Tuttavia questo approccio economico non va confuso con una visione commerciale. Infatti l'acqua non è un prodotto come gli altri e non può entrare in una pura logica di mercato regolato esclusivamente dal gioco dell'offerta e della domanda". In maniera generale e a maggior ragione nel contesto dei rapporti Nord-Sud, è necessario introdurre una dimensione sociale. E' impensabile sottoporre l'acqua alla legge del mercato senza prevedere, contestualmente, elementi di compensazione e in particolare sovvenzioni per i più disagiati.
Occorre dire che la crescente penuria d'acqua introduce modificazioni strutturali che incidono sulla geografia politica degli stati, con effetti cruciali in Medioriente. Contrariamente alla terra ferma, l'acqua è mobile. Il corso di un fiume non è ostacolato dai confini politici. In un mondo in cui l'integrità territoriale degli stati subisce vincoli di varia natura e in cui l'acqua potabile diventa rara e dunque sempre più importante, lo stato sovrano è sempre di più tributario dei corsi d'acqua dolce che lo attraversano e quindi di strategie politiche determinate dalla configurazione dei bacini rivieraschi.
Di conseguenza è più che mai necessaria una solidarietà fra tutti gli stati che appartengono al bacino di uno stesso fiume (ad esempio fra tutti gli stati che sono attraversati dal Nilo, dall'Eufrate, dal Giordano), solidarietà senza la quale ciascun paese verrebbe penalizzato. In questa stessa logica, diventa sempre più pericoloso per uno stato prendere a pretesto i conflitti fra stati non rivieraschi (come il conflitto israelo-arabo), per intromettersi nelle vicende di bacini rivieraschi estranei come, ad esempio, l'intervento di Israele nei rapporti fra paesi africani bagnati dal Nilo.
Se è vero che la penuria d'acqua minaccia di acuire ulteriormente i conflitti in Medioriente, essa può anche accelerare la presa di coscienza della necessità di superarla.
Un"progetto ecologico-politico rivoluzionario degno del XXI secolo" ha il vantaggio di pensare la questione in una prospettiva di amplissimo respiro: la vastità stessa dell'impresa deve consentire di ammortizzarne i costi. Le sue stesse dimensioni sembrano annunciare una nuova era, davvero planetaria.
Questo progetto mondiale preparerebbe il pianeta alle esigenze dell'irresistibile spinta demografica che non si potrà affrontare senza risolvere il problema dei deserti. L'ecologia dovrebbe coniugarsi con il politico oppure il politico dovrebbe integrare l'ecologia per far fronte al degrado ambientale in quanto minaccia per la sopravvivenza della specie. In Medioriente la risposta alle esigenze ecologiche dovrebbe facilitare la risoluzione di un conflitto politico ancora aperto, il cui acuirsi contribuirebbe, in senso inverso, ad aprire un varco sul piano ecologico. In nessun altro deserto le coercizioni politiche possono avere lo stesso effetto. Finora tutti gli sforzi tesi alla risoluzione equa del conflitto israelo-arabo sono stati segnati da uno squilibrio strutturale che viziava alla base il processo di pace. Ciò che rese possibile la conferenza di Madrid fu l'invasione del Kuwait da parte dell' Iraq, vale a dire una guerra tra arabi che, per molti regimi del Golfo, faceva di un dirigente arabo, Saddam Hussein, il nemico numero uno. In questo contesto Israele diventava il male minore. Insomma, questi regimi vedevano nei negoziati un mezzo per neutralizzare la minaccia d'Israele in modo da potersi dedicare a quella irachena.
Come giungere a una soluzione soddisfacente quando persino i dirigenti israeliani più moderati erano tentati di sfruttare le contraddizioni fra stati arabi per minimizzare le"concessioni" necessarie da parte dello stato ebraico? Gli arabi, in difficoltà, apparivano incapaci di intaccare la credibilità della contestazione dei vari"fronti del no". In queste condizioni era impossibile bloccare il terrorismo. Prese nella morsa fra aperture di pace e minacce di attentati, le colombe israeliane si mostravano così incoerenti da far tornare i falchi al potere...
Un progetto ambizioso In compenso, il progetto di trasformare i deserti arabi in terre fertili è uno dei rari casi in cui la quantità araba in particolare la vastità di questi deserti e la capacità che hanno di catturare l'energia solare ha la meglio sulla qualità israeliana, in particolare sulla superiorità dell'infrastruttura scientifica e tecnologica. E se la tecnologia di punta israeliana può essere sostituita da quella di altri paesi industrializzati, i deserti arabi sono invece insostituibili e questo può in qualche modo compensare lo squilibrio strutturale indicato sopra. In teoria, gli arabi possono attuare il loro progetto senza Israele rivolgendosi a paesi sviluppati nei quali la pressione delle lobbies pro-israeliane è inesistente o circoscritta: il Giappone, che dipende fortemente dal petrolio arabo, la Cina, che soffre anch'essa di penuria d'acqua, persino l'Europa comunitaria i cui interessi sono intimamente legati allo sviluppo del Maghreb e del Machrek. La Francia celebra quest'anno il bicentenario delle sue relazioni con l'Egitto, commemorazione molto discussa in Egitto: la spedizione di Bonaparte del 1798 è stata un atto di emancipazione (decifrazione dei geroglifici, riscoperta dell'Egitto dei faraoni, introduzione dei caratteri a stampa, ecc.)? O non piuttosto, e innanzi tutto, un atto coloniale, il primo del XIX secolo, visto che la Francia si proponeva di tagliare agli inglesi la via delle Indie? In ogni caso, molti intellettuali egiziani ritengono che le celebrazioni in corso non siano prive di connotazioni neocolonialiste. Se mostrasse di voler dar corpo al progetto di sfruttamento comune dei deserti, Parigi aiuterebbe a dissipare i malintesi non solo in Egitto ma nell'intera regione.
Per i regimi arabi, la prima sfida da affrontare riguarda la loro capacità a istituire una Autorità simile alla Comunità europea per il carbone e l'acciaio (Ceca) creata da Jean Monnet: una Comunità del Medioriente per l'acqua e il petrolio con prerogative autonome che ogni stato si impegnerebbe a non ostacolare. Tanto più che si tratterebbe nei fatti dell'era post- petrolifera: l'oro nero, sempre meno carburante, diventerebbe soprattutto una materia prima per la petrolchimica. Il conflitto israelo-arabo, dopo essere stato a lungo spiegato come un conflitto fra nazionalismi pan-arabo e sionista rischia di degenerare in una guerra di religione simile a quelle che lacerarono l'Europa prima del secolo dei Lumi. Per porvi fine, è preferibile un progetto ecologico che sostituisca l'abbondanza alla penuria, piuttosto che il mercato comune caro a Shimon Peres, che rischia di acuire ulteriormente le differenze economiche e sociali. Contrariamente all'economia di mercato che arricchisce gli uni e impoverisce gli altri, le scoperte scientifiche sono utili a tutti. Finché perdura la penuria, l'Altro a maggior ragione se viene da fuori è sentito come un aggressore. Per giungere a una pace definitiva, Israele deve saper convincere con i fatti gli interlocutori arabi che la sua presenza nella regione è per loro più utile della sua assenza e che i suoi atout tecnologici possono integrarsi con i loro, a condizione che siano applicati i principi di una soluzione equa: scambio della terra contro la pace, creazione di uno stato palestinese sovrano a fianco di Israele, trasformazione di Gerusalemme in capitale di due stati, etc.. Questi obbiettivi saranno tanto meglio raggiunti quanto più saranno sanati gli squilibri strutturali del Medioriente.
note:
* Giornalista, Il Cairo
(1) Si legga"Battaglia planetaria per l'oro blu", le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 1997
(2) Si veda Roger Cans, La Bataille de l'eau, Le Monde Editions, Parigi, 1997, p. 207.
(Traduzione di M.G.G.)
Da Le Monde Diplomatique del giugno 98
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