domenica 8 gennaio 2012


 Roma, 28 luglio 2008 
dal sito della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale

Il governo della Tanzania non dovrà pagare 20 milioni di dollari alla compagnia inglese Biwater come risarcimento del fallito processo di privatizzazione delle risorse idriche del Paese. Dopo tre anni di dispute legali, l’International Centre for Settlement of Investment Disputes (ICSID), uno dei cinque “rami” della Banca mondiale, ha infatti rigettato le richieste di City Water, la sussidiaria della Biwater che nell’arco di poco tempo aveva lasciato un pessimo ricordo in Tanzania. 

Nel 2003 il governo locale decise di avviare un processo di privatizzazione della fornitura dell’acqua sulla scorta delle pressioni subite dalla Banca mondiale – e anche dal Fondo monetario internazionale – che avevano messo una tale misura come pre-condizione per la concessione di fondi e per inserire la Tanzania nel programma di riduzione del debito dedicato ai Paesi più poveri del pianeta (Highly Indebted Poor Country Initiative). Mentre la compagnia di Stato avrebbe continuato a occuparsi del miglioramento della rete idrica, l’impresa privata – in quel caso un consorzio guidato dalla britannica Biwater, denominato City Water – si sarebbe presa cura di tutto il resto, come la fornitura dei servizi e la gestione delle tariffe. 

Sebbene uno dei supposti vantaggi del processo di privatizzazione sia quello di attrarre maggiori investimenti da parte di compagnie straniere, in Tanzania sui 100 milioni di dollari utilizzati per lo sviluppo del progetto di gestione delle risorse idriche solo cinque furono effettivamente messi a disposizione del consorzio che si era aggiudicato l’appalto. Tutto il resto fu erogato dalla Banca o dall’esecutivo di Dar es Salaam. Non solo, allo stesso consorzio era stato concesso un periodo di sei anni di ragguardevoli agevolazioni fiscali. Inizialmente il contratto firmato dalla Biwater e dalle altre imprese del Nord del mondo sarebbe dovuto durare tre anni, ma a metà 2005 il governo tanzaniano disse basta. Potrebbe sembrare incredibile, visto che si partiva da un punto molto basso – nel 2003 solo il 4% delle abitazioni aveva l’acqua corrente – ma la situazione nell’arco di tempo di gestione privata era ulteriormente peggiorata. La City Water aveva investito solo la metà dei cinque milioni promessi, non aveva garantito nessuna agevolazione per le fasce più povere della popolazione e non aveva onorato dei debiti contratti con il governo della Tanzania. 

Nel rapporto del 2006 della Ong inglese World Development Movement, sono riportate numerose testimonianze di cittadini tanzaniani che evidenziano come nel periodo di gestione della City Water l’accesso all’acqua corrente fosse peggiorato. “Se prima dal mio rubinetto usciva acqua almeno una volta a settimana e i costi erano compresi nell’affitto, con la comparsa della City Water questo non è praticamente più accaduto e sono stato costretto a comprare acqua da rivenditori privati, passando da una spesa di 85.000 scellini al mese a 109.000” si afferma in una delle testimonianze contenute nel rapporto. 

Tra difficoltà finanziarie – la dirigenza aveva ammesso perdite di oltre 400mila dollari per il solo primo anno – e circostanziate accuse di latente inefficienza, la City Water si ritrovò con un contratto di prestazione di servizi stracciato e la rabbia dei residenti locali, che pagavano per ritrovarsi senza nemmeno una goccia d’acqua dal rubinetto. 

Al governo di Dar es Salaam non rimase che rinazionalizzare tutto e provare a soddisfare le pressanti esigenze dell’esasperata popolazione. Uno dei più ambiziosi progetti di privatizzazione delle risorse idriche in Africa voluto dalla Banca mondiale, a cui l’istituzione aveva destinato un centinaio di milioni di dollari, si era rivelato un flop di proporzioni clamorose. Già nel 2006 un tribunale con base a Londra che opera per conto della United Nations Commission on International Trade Law (UNCITRAL), la commissione delle Nazioni Unite che regola il diritto commerciale internazionale, aveva ritenuto inammissibile il ricorso presentatogli dalla City Water e stabilito che alla Tanzania andavano rimborsati sette milioni di dollari tra danni e costi legali.


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